Newsletter Fitoterapia nr. 36 – Luglio 2018

Newsletter n° «36»

Luglio 2018

Shatavari (Asparagus racemosus Willd)

Un tonico versatile per il benessere femminile

International Journal of Pharmaceutical & Biological Archives 2011; 2(3):855-863

Asparagus racemosus (Shatavari): a versatile female tonic.

Komal Sharma, Maheep Bhatnagar

Note generali e curiosità

Asparagus racemosus Willd è una preziosa pianta medicinale di antichissimo uso e correntemente citata non solo nelle farmacopee Indiana e Cinese ma anche nelle principali farmacopee europee, anche in quella italiana e storicamente in quella britannica.
Shatavari è il nome tradizionale, di origine sanscrita, di Asparagus racemosus Willd e può essere tradotto come “colei che possiede cento amanti” implicando la sua capacità di aumentare fertilità e vitalità soprattutto femminile; ritenuto in Ayurveda “Regina delle erbe” promuoverebbe amore e devozione.
Il suo uso è ricorrente in molti sistemi di medicina tradizionale come quella Ayurvedica, Unani e Siddha oltre che in Africa ed in Cina.
La storia ci tramanda che le proprietà medicamentose della famiglia delle asparagaceae erano già note ad Egizi e Greci ed anche nell’antica Persia. Alla famiglia delle Asparagaceae appartengono più di 300 specie tra le quali si ricorda anche l’uso medicinale della specie “adscendes” e “ganaclades”. La specie comunemente utilizzata per scopi alimentari è invece l’Asparagus “officinalis”, che pur appartenendo alla stessa famiglia, non vanta gli stessi effetti bioattivi di Asparagus racemosus. Nel suo libro De Re Rustica (37 a. C.), Marco Terenzio Varrone lodava la specie edibile Asparagus officinalis come un prezioso ortaggio da giardino; presso Egizi, Greci e Romani, l’Asparagus officinalis cominciò ad essere coltivato anche per scopi alimentari e, tornato selvatico dopo la caduta dell’impero romano, ritornò ad essere coltivato nei giardini monastici del Medioevo. (Cassandra L. Quave,2013)
I romani apprezzavano molto l’asparago non solo per scopi alimentari e lo ritenevano tra le “medicine” più utili. Le radici fresche erano usate come diuretico e come sedativo mentre gli sciroppi, fatti con i giovani germogli e l’estratto delle radici, erano usati come sedativi per problemi cardiaci. Miscele di asparago, sedano, prezzemolo, agrifoglio e finocchio furono usati per il trattamento dell’idropisia e renella. (Cassandra L. Quave,2013)
Inoltre, un lenimento a base di olio di asparago veniva ritenuto utile per proteggersi dalle punture di api, mentre la radice era usata per lenire dolori ai denti (Hexamer 1901).
L’asparagus racemosus Willd è di fatto una varietà selvatica o spontanea delle asparagaceae, diversa dall’Asparagus officinalis, e rispetto a questo vanta maggiori effetti medicinali come testimoniato dall’ampio utilizzo nella medicina ayurvedica per aumentare la fertilità, curare i dolori e per aumentare la potenza sessuale di uomini e donne (Jain et al., 2004).
Analogamente Shatavari era noto tanto in India quanto in Cina per le sue proprietà diuretiche come “lava reni” e per la prevenzione della formazione di calcoli renali. Una credenza popolare curiosa è quella che i farmacisti cinesi “raccogliessero e risparmiassero” le migliori radici di Asparagus racemosus per i loro amici intimi e le loro famiglie, credendo che promuovessero buoni sentimenti, compassione e amore. (Cassandra L. Quave,2013)
Asparagus racemosus Willd è tradizionalmente considerato un tonico-adattogeno generale specifico ed in particolare della sfera riproduttiva femminile indicandolo come il “tonico femminile per eccellenza” per valenze “ringiovanenti” (in Ayurveda rasayana) e migliorative di diverse problematiche come il calo della libido, l’infertilità, l’infiammazione e la secchezza tissutale degli organi sessuali, la follicologenesi e l’ovulazione; altrettanto tradizionale è l’impiego di Shatavari come tonico post partum (come regolatore delle variazioni ormonali uterine), e stimolatore della galattogenesi. Secondo l’uso tradizionale Shatavari eserciterebbe anche influenza positiva sull’utero in preparazione al concepimento e come preventivo degli aborti, oltre che nel contrastare leucorrea e menorragia. In generale, secondo le principali fonti storiche ayurvediche, (Charaka Samhita e Ashtanga Hridaya) Asparagus racemosus è presente in gran parte delle più antiche formule medicinali per il trattamento dei disturbi femminili.
Shatavari viene considerato uno specifico tonico-adattogeno femminile così come Withania somnifera lo sarebbe per i maschi.
Dal punto di vista botanico Asparagus racemosus Willd è una specie di asparago classificato nella famiglia delle Asparagaceae (in precedenze delle Liliaceae) ed è originario di India, Africa (Sri Lanka), Australia, di alcune parti della Cina e dell’Himalaya. Il suo nome deriverebbe dalla radice greca “aspharagos” che, derivando dal persiano “asparag”, significherebbe germoglio turgido o gambo (riferendosi alle sommità o all’intera pianta).
Come curiosità, secondo l’antropologo Marco Miosi, una delle due più suggestive ma accreditate teorie che spiegano l’etimologia della parola “asparago” ipotizza che essa deriverebbe, tramite il latino, dal termine greco antico aspharagos, e a sua volta dal verbo “spargao” che significa “essere turgido”. Il termine “asparagus” quindi ben descriverebbe l’antico uso medicinale di questa famiglia di piante che già i primi “medici-curatori” mesopotamici, passando per i romani (Plinio il Vecchio) e giungendo fino al Rinascimento (Castore Durante), prescrivevano quale potente afrodisiaco. La turgidità cui fa riferimento l’etimo greco rimanderebbe alla forma fallica del turione dell’asparago che presupporrebbe un effetto “medicamentoso” basato sul principio omeopatico, largamente impiegato nella medicina antica, che “similia similibus curantur”.
L’impiego medicamentoso moderno ne vede l’utilità come generale tonico-adattogeno nei principali disturbi femminili, sia fisici sia psico-emotivi, in particolare nel periodo climaterico e mestruale in contrasto a depressione, ansia, irritabilità, senso di astenia, secchezza vaginale, flushing, dismenorrea e della sindrome premestruale.
Gli estratti di Asparagus racemosus si dimostrano sicuri e ben tollerati ma, contraddicendo l’uso tradizionale che invece lo ha per secoli consigliato in gravidanza come anti-abortivo, recentemente se ne sconsiglia l’uso in gravidanza; questa avvertenza deriverebbe da contraddittori recenti studi che ne ipotizzerebbero un eventuale potenziale teratogeno. (Sharma et al, 2017)
Il fitocomplesso ottenuto dalle radici è molto articolato tuttavia in esso prevalgono percentualmente le “shatavarine” (saponine steroidali) cioè molecole contenenti un nucleo steroidale in forma glicosilata e non glicosilata (le più importanti per effetti farmacologici sono la shatavarina I e la shatavarina VI); nel fitocomplesso si ritrovano inoltre, insieme ad altre sostanze meno rappresentate, l’oligospirostanoside (immunoside), l’asparagamina-A (alcaloide policiclico), isoflavoni (in minima quantità), flavonoidi (quercetina, rutina e iperoside), steroli, tracce di minerali (zinco, manganese, rame, calcio, magnesio, selenio). [link monograph]
Nel fitocomplesso è inoltre presente l’acido asparagusico (1,2-ditiolani-Acido-4-carbossilico) che è un composto eterociclico a 5 atomi di carbonio contenente zolfo; questo composto isolato sembra essere unicamente presente nella famiglia delle asparagaceae e si ritiene che sia il responsabile dello strano odore che assumono le urine dopo l’ingestione di asparagi.
Il crescente interesse per questa antica pianta sarebbe anche recentemente (2016) confermato nel mondo tecnico-farmaceutico che ne sta studiando possibili formulazioni migliorative dei parametri farmacocinetici (Plangsombat N et al. Anti-inflammatory activity of liposomes of Asparagus racemosus root extracts prepared by various methods. Exp Ther Med. 2016 Oct;12(4):2790-2796. PubMed).
Nelle moderne formulazioni farmaceutiche consigliate per la supplementazione si impiegano prevalentemente l’estratto secco delle radici e la polvere micronizzata delle radici.
La moderna titolazione degli estratti secchi dovrebbe essere in polisaccaridi totali attualmente min. 20%
Effetti ottimali si otterrebbero dalla miscela dell’estratto secco con la polvere.
Gran parte degli effetti farmacologici di Shatavari dipenderebbero dalla presenza del nucleo steroidale delle shatavarine, responsabile degli effetti hormonal-like (ormone modulatori) e dalla loro forma glicosilata che sarebbe maggiormente responsabile degli effetti a favore del sistema immunitario; sembrerebbero meno coinvolti nel globale meccanismo di attività gli isoflavoni poiché percentualmente presenti nel fitocomplesso in quantità minima.
Secondo attuale letteratura scientifica agli estratti delle radici della pianta sono attribuiti molteplici razionali farmacologici antispasmodici, antifame, tonici gastrici, afrodisiaci, galattogeni, astringenti, antidiarroici, lassativi, antitumorali, antinfiammatori, purificatori del sangue, antitubercolari, antiepilettici, anti-nefrolitiasici antipiretici, antiossidanti.
Nell’uso moderno Shatavari è impiegato principalmente come un tonico-adattogeno specifico femminile in particolare in contrasto alle fastidiose sintomatologie psico emotive e fisiche sia nel periodo delle mestruazioni sia durante l’intero periodo climaterico.
 

Riflessioni dall’articolo

L’articolo che proponiamo, pubblicato nel 2011 da International Journal of Pharmaceutical & Biological Archives, offre una sintesi piuttosto completa dei potenziali medicamentosi di Shatavari tuttavia segnaliamo a chi fosse interessato anche un altro recentissimo articolo (2017) molto più esteso e dettagliato per descrizione degli effetti farmacologici: Sharma, Ajitha, and Devasya Narayana Sharma. “A Comprehensive Review of the Pharmacological Actions of Asparagus Racemosus.” Am. J. Pharm. Tech Res 7 (2017): 2249-3387.
Di seguito riportiamo qualche argomentazione trattata nell’articolo inerente soprattutto agli effetti adattogeni che dipenderebbero dalle proprietà ormone modulatrici di Shatavari e sui relativi aspetti di sicurezza d’impiego.
Gli effetti di Asparagus racemosus come stimolatore della follicologenesi, nella donna giovane ed in età fertile, sono stati confermati anche in recenti studi sperimentali che hanno concluso la capacità di estratti di radice di Asparagus racemosus di incrementare, nel modello animale, il peso delle ovaie e quindi la relativa attività di follicologenesi con un aumento significativo dei livelli di FSH (follicle-stimulating hormone). Questi effetti sarebbero principalmente dovuti ad effetti di natura simil fito-estrogenica delle shatavarine (che esercitano azioni simili agli ormoni), e solo minimamente alla presenza degli isoflavoni che contribuirebbero a bilanciare i livelli di estrogeni.
Asparagus racemosus può essere utile nelle problematiche mestruali quali la dismenorrea, la sindrome premestruale, il sanguinamento irregolare nel periodo peri-menopausale e anche in quadri post menopausali; questi effetti positivi vengono ricondotti ad alcune saponine contenute nel fitocomplesso che sarebbero in grado di ostacolare l’attività ossitocica sulla muscolatura uterina controllandone le variazioni delle spontanee contrazioni e contrastando l’insorgenza del dolore. In particolare alcuni estratti di Asparagus racemosus si sono rivelati in grado di contrastare anche gli effetti spasmogenici sull’utero indotti da sostanze come acetilcolina, cloruro di bario e serotonina confermando i razionali di Asparagus racemosus nell’alleviare la sintomatologia della dismenorrea.
Una particolare sapogenina glicosilata si è inoltre dimostrata in grado di bloccare in modo specifico le contrazioni indotte da ossitocina (questo spiegherebbe ulteriormente anche l’uso tradizionale come antiabortivo); i globali effetti adattogeni positivi di Shatavari nella Sindrome Pre Mestruale vengono inoltre ricondotti anche ad attività immunomodulatorie degli immunosidi che sostengono l’efficienza del sistema immunitario e contribuiscono ad una generale sensazione di benessere psico-fisico.
Tra gli studi condotti per determinare i meccanismi di Asparagus racemosus nel favorire la fisiologica funzionalità dell’apparato riproduttivo femminile e quindi favorire la fertilità (favorendo la follicogenesi e l’ovulazione), uno in particolare aiuta a comprenderne anche aspetti di sicurezza di impiego ad esempio nelle problematiche menopausali in presenza di diversi quadri anamnestici poiché esclude per Shatavari attività estrogeniche dirette.
Come noto la fonte di energia per il sistema riproduttivo femminile è rappresentata dal glicogeno estrogeno-dipendente. Gli estrogeni infatti determinano l’incremento del contenuto di glicogeno nell’utero e qualsiasi diminuzione del glicogeno uterino implicherebbe direttamente una carenza di estrogeni. Un interessante studio sperimentale ha dimostrato che un estratto di Asparagus racemosus favorisce un aumento del peso uterino e del glicogeno uterino senza incrementare i livelli sierici degli estrogeni e che questo effetto invece non si è osservato in ratti privati delle ovaie e utilizzati come controllo; questo studio indica che Shatavari svolge la sua funzione positiva esclusivamente attraverso un meccanismo di sola e diretta competizione recettoriale con i recettori degli estrogeni senza aumentarne i livelli endogeni e dimostrando che Shatavari non possiede di per sé nessuna attività estrogenica diretta.
Le problematiche psico-emotive e fisiche durante la “menopausa” sono molto frequenti e ne soffre la maggior parte delle donne che transitano dal periodo fertile a quello non riproduttivo; i sintomi sono i più noti come vampate di calore, sudorazione notturna, palpitazioni, insonnia, ansia, irritabilità, secchezza vaginale, atrofia vaginale, atrofia della cervice e diminuzione delle dimensioni dell’utero ed analogamente ne soffrono le donne che hanno subito isterectomia. In queste situazioni ricorrono elevati livelli sierici di ormone follicolo stimolante e ormone luteinizzante che svolgono un ruolo chiave nel sistema riproduttivo femminile poiché regolano i cicli ovarici (sull’asse ovaie-ipotalamo) e parallelamente si ha il progressivo calo di estrogeni e delle relative funzioni.
Pratica clinica, in questi casi è il somministrare la terapia ormonale sostitutiva (HRT) che tuttavia non è esente da effetti avversi e da questo nasce la crescente ricerca di “medicina naturale” nel tentativo di avere un’alternativa sicura agli ormoni steroidei sintetici.
Per questi motivi negli ultimi anni si sono approfonditamente studiati gli effetti di circa 300 piante medicinali (es. Soia, Trifoglio rosso) che contengono sostanze che pur non avendo specifica struttura steroidale, mimano gli effetti ormonali degli estrogeni; queste sostanze vengono definite fito-estrogeni e sono generalmente ben tollerati anche se sono molto meno potenti degli estrogeni endogeni o esogeni. Chimicamente i fito-estrogeni possono essere raggruppati in tre famiglie principali e cioè i lignani, i cumestani e gli isoflavoni; queste tre famiglie di molecole presentano una elevata somiglianza della loro struttura chimica con quella gli estrogeni endogeni e chimici e sono caratterizzati da una elevata affinità recettoriale per i recettori degli stessi e sarebbero quindi in grado di ampliare o ridurre l’effetto degli estrogeni sull’organismo.
Anche Shatavari può essere considerato un fonte di sostanze con attività paragonabile a quella dei fito-estrogeni, tuttavia con una qualche differenza anche importante.
Studi scientifici, anche recenti, attribuiscono ad Asparagus racemosus effetti simili a quelli dei fito-estrogeni poiché contiene le shatavarine (sapogenine a struttura steroidale) che direttamente o come precursori si comporterebbero come gli isoflavoni che sono le sostanze fito-estrogeniche più studiate negli ultimi anni.
Le shatavarine tuttavia sono chimicamente diverse dagli isoflavoni e anche la metodica di titolazione del fitocomplesso di shatavari, che determina la presenza di polisaccaridi totali e non di isoflavoni a differenza di quanto avviene per la Soia o per il Trifoglio rosso, sosterrebbe la prevalenza di sostanze diverse dagli isoflavoni che in Shatavari sono presenti in quantità molto modesta (mediamente 5 microgrammi di isoflavoni ogni 100 grammi di estratto).
Per questi motivi Asparagus racemosus non potrebbe essere considerato un “fito-estrogeno” in senso stretto, tuttavia similmente “mimerebbe” positivamente, solo a livello recettoriale, gli effetti degli estrogeni nel ridurre i sintomi avversi ad esempio della menopausa o della Sindrome Pre Mestruale con un generale effetto “hormonal-like” in generale su tutte le sfere regolate dagli estrogeni senza indurre variazioni dei loro livelli endogeni. Asparagus racemosus è presente in numerosi preparati in forma di monocomponente o in formule polierbali utili a contrastare sintomatologie mestruali, post-menopausali ed in generale stanchezza, affaticamento, senso di irritabilità, alterazioni dell’umore e le sintomatologie fisiche che le accompagnano. Questi effetti tonici-adattogeni a supporto del generale senso di benessere e della qualità di vita sono stati osservati anche in pazienti isterectomizzate.
Altri studi recenti hanno inoltre dimostrato la capacità di Asparagus racemosus di contrastare l’acidità gastrica e la formazione di ulcere peptiche; in particolare Sairam et al. nel 2003, hanno osservato che estratti di radice di A. racemosus sono stati in grado di favorire la guarigione delle ulcere gastroduodenali indotte da stress e cisteamina: questi effetti si sono dimostrati riconducibili ad un aumento dei fattori difensivi della mucosa come la secrezione di muco e fattori citoprotettivi; in particolare uno di questi studi sperimentali ha concluso che Shatavari è stato in grado di favorire la guarigione delle ulcere gastriche con effetti paragonabili a quelli ottenuti con la ranitidina.
Nell’uso cronico, gli estratti di radice anche a dosi molto elevate non hanno prodotto alcuna anormalità nel comportamento di ratti e topi. L’uso dell’Asparagus racemosus è sconsigliato in gravidanza ed allattamento anche se, nell’uso tradizionale, si è dimostrato sicuro e ben tollerato anche in queste situazioni.


 
International Journal of Pharmaceutical & Biological Archives 2011; 2(3):855-863

Asparagus racemosus (Shatavari): a versatile female tonic.

Komal Sharma 1, Maheep Bhatnagar 2

Author information:
1 Department of Pharmacology, B. N. PG College of Pharmacy, Udaipur-313001, Rajasthan. 2 College of Science, ML Sukhadia University, Udaipur-313001, Rajasthan.

Abstract

Asparagus racemosus, traditionally known as shatavari means “who possesses a hundred husbands or acceptable to many”.
In Ayurveda it is considered a female tonic. In spite of being a rejuvenating herb it is beneficial in female infertility, as it increases libido, cures inflammation of sexual organs and even moistens dry tissues of the sexual organs, enhances folliculogenesis and ovulation, prepares the womb for conception, prevents miscarriages, acts as post partum tonic by increasing lactation and normalizing the uterus and the changing hormones.
Its use is also advocated in leucorrhoea and menorrhagia.
Shatavari is the main Ayurvedic rejuvenative tonic for the females, as is Withania for the males.

IJPBA, May – Jun, 2011, Vol. 2, Issue, 3

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Newsletter Ayurveda nr. 44 – Giugno 2018

Newsletter n° «44»

Giugno 2018

L’AYURVEDA “PER LA BELLEZZA DEI CAPELLI”

Journal of Ayurveda and Integrated Medical Sciences | Mar – Apr 2018 | Vol. 3 | Issue 2

DANDRUFF – AYURVEDA MANAGEMENT FOR BETTER HAIR CARE 

Kavita Daulatkar

Cenni sul concetto di bellezza in Ayurveda

Il valore della “bellezza” e le conoscenze “per raggiungerla e mantenerla” attraverso l’impiego di erbe, minerali e prodotti di origine animale sono antiche come l’esistenza umana.

Come noto l’Ayurveda non separa il concetto di bellezza fisica dal concetto di bellezza e benessere spirituale ma le considera un tutt’uno da raggiungere e conservare in una visone estetica globale; dal punto di vista costituzionale ayurvedico la Bellezza dipende direttamente da Prakriti (costituzione corporea), Sara (predominanza strutturale), Sanhanan (compattezza del corpo), Twak (completamento della pelle), Praman (misurazione) e Dirghayu lakshyana (sintomo di lunga vita); secondo l’ayurveda la bellezza contribuisce anche alla stabilità psicologica contribuendo alla fierezza e alla fiducia in se stessi. [1]

La cosmetologia ayurvedica si fonda su osservazioni molto profonde individuandone le primarie origini già nel grembo materno e tradizionalmente valorizza i benefici della “continuità” di interventi quotidiani come dinacharya e come ratricharya, ritu charya con erbe medicinali e minerali per il raggiungimento ed il mantenimento della bellezza. [1]

Il totum olistico fisico-energetico della “bellezza” è già ben chiarito in Charaka in cui si narra della bellezza femminile che può migliorare con l’incontro dell’uomo adatto, che analogamente può migliorare se stesso quando è in perfetta simpatia fisica e psichica con la partner ideale; nei testi classici la bellezza femminile è da sempre valorizzata come una virtù fonte di “ricchezza” e “abbondanza” riconducendosi al concetto che la “creazione” dipende dalle donne. [1]

In Rasa-bandha, un genere letterario poetico (lirico) dell’antica letteratura Indiana si ritrovano già definizioni del concetto di bellezza della donna descritta con il termine “kalinee” cosi come anche in testi di farmacopea e antica scienza farmaceutica (Rasasala); le caratteristiche di “kalinee” sono ben descritte ad esempio in Rasaratna samuchachaya opera alchemica Indiana scritta in sanscrito probabilmente tra il tredicesimo ed il sedicesimo secolo e che descrive anche i benefici cosmetologici dei materiali minerali.[1]

A titolo di curiosità, secondo questi testi “alchemici”, in mancanza di “kalinee” questa poteva essere ottenuta con la somministrazione di un “Karsa” (3 mg di zolfo purificato) insieme a ghee per ventun giorni continuativi. (White, David Gordon, 1996).[1]

Charaka samhita ha classificato numerose droghe cosmetiche (come Varnya, Kustagna, Kandugna, Bayasthapak, Udardaprasamana, Brahmi) e molti “lepam” (impiastri) dermocosmetici sono già indicati in Sushruta Samhita e Asthanga hridaya per l’abbellimento di pelle, capelli, denti, unghie.[1]

La dieta tuttavia ha un ruolo speciale nel migliorare e mantenere la bellezza di un individuo (anche dei capelli) ed uno dei fondamenti della visione ayurvedica cosmetologica e del raggiungimento e mantenimento della bellezza, è che a rendere una persona brutta e malata sia l’accumulo di materiali tossici nell’organismo e che Sodhana (purificazione / detossificazione) sia il modo migliore per l’eliminazione di tossine dal corpo; per questi motivi le procedure di panchakarma sono impiegate per il benessere della pelle, che è uno dei principali indicatori della condizione generale dell’individuo. [1]

[1] Hazra J, Panda AK (2013) Concept of Beauty and Ayurveda Medicine. J Clin Exp Dermatol Res 4: 178. doi:10.4172/2155-9554.1000178

Come noto secondo l’Ayurveda, le funzioni del corpo umano sono regolate da un sistema di “canali” chiamati (Srotamsi), comprendenti strutture sia microscopiche sia macroscopiche come ad esempio il sistema respiratorio, quello circolatorio, quello riproduttivo e nervoso e quello linfatico (i gangli linfatici rappresentano delle vere e proprie centrali di depurazione dell’organismo).

Questi canali rappresentano le “vie” attraverso le quali si attuano innumerevoli processi psico-biologici come la produzione di enzimi, la secrezione di neuro-trasmettitori, la regolazione ormonale, la capacità respiratoria, l’assimilazione/eliminazione digestiva, l’immuno regolazione, che sono processi fondamentali per il benessere e la bellezza.

Tutti questi processi agiscono ritmicamente ed in concerto tra loro nel regolare la fornitura di nutrienti, la filtrazione di tossine, l’escrezione di rifiuti, oltre ad assolvere a numerose altre funzioni.

Attraverso gli “srotas” proprio i materiali di scarto, se non sufficientemente metabolizzati ed eliminati, possono accelerare i fenomeni di invecchiamento e diventare causa di malattia depositandosi in zone “più deboli” del corpo rese tali da fattori genetici o più comunemente, dallo stile di vita (es. scelte alimentari non salutari), dallo stress o da influenze ambientali.

“Ama” (i materiali tossici: comunemente le tossine) quando non adeguatamente trasformati ed eliminati possono offuscare la normale intelligenza cellulare psico-biologica e diventare causa di malattia e di scadimento della bellezza, quindi “panchakarma” viene ritenuto l’approccio ideale come preventivo per il mantenimento del corpo sano e per mantenere l’ottimale funzione cellulare oltre ad essere ritenuto curativo in condizioni di patologia.

L’ulteriore elemento fondamentale per mantenere la bellezza, ad esempio della pelle, è l’acqua; essa origina negli strati epidermici più profondi e risale ad idratare le cellule dello strato corneo della pelle ed in parte si disperde attraverso l’evaporazione. Resta quindi fondamentale il ruolo della corretta idratazione della pelle e gli interventi Snehana e Swedana contribuiscono ad idratare la nostra pelle; inoltre si ritiene che Snehana e Swedana non solo possano inibire la perdita di acqua trans-epidermica ma anche sostenere la barriera lipidica e ripristinare la componente amino-lipidica della pelle rafforzandone le strutture protettive.

Per questi motivi l’Ayurveda consiglia da sempre, oltre all’impego di sostanze naturali o minerali specifiche, una dieta abbondantemente vegetariana e l’assunzione di molta acqua per mantenere bellezza e giovinezza.

In generale l’Ayurveda raccomanda prodotti naturali per la bellezza in cui predominino gli effetti nutrienti (lipidici), idratanti e detossinanti ed antiossidanti.

L’articolo in breve

In Ayurveda i capelli hanno una importanza di primo livello, essi infatti hanno un impatto rilevante sulla funzionalità dell’intero corpo. Il loro colore, la lunghezza ed il loro aspetto determinano una differenza significativa da persona a persona e possono influenzare la sfera della sicurezza psicologica e dell’autostima.

Da sempre in India sia gli uomini che le donne hanno dato molto importanza alla cura dei capelli e così la medicina ayurvedica ha sviluppato nei secoli una serie di interventi specifici per mantenerli sani, lunghi e luminosi con tecniche specifiche e preparazioni prevalentemente erbali con finalità rivitalizzanti ed energizzanti.

Solo a titolo di esempio citiamo il noto Kesa Abhyanga che attraverso anche alla pratica di Shiro abhyanga (massaggio alla testa) e Pichu (impacchi caldi con taila) aiuta a mantenere in buona salute i capelli.

Gli effetti di Kesa abhyanga non sono solo rivolti al mantenimento della sola struttura pilifera (aminoacidi solfati/cisteina) ma più profondamente anche ai Romakoopa (bulbi piliferi); lo speciale massaggio coinvolge l’intera struttura del cuoio capelluto migliorando la perfusione sanguigna responsabile dell’ossigenazione e del nutrimento dei tessuti; grazie a questo massaggio si favorisce inoltre l’eliminazione di tossine e residui di cellule morte (forfora).

Gli effetti di questo speciale intervento dinamizzante “curano” i capelli con generali effetti lubrificanti, idratanti, nutrienti, antiossidanti e a seconda delle diverse erbe impiegate (o di altre sostanze, es. argille) anche con effetti specifici (es. antibatterici / antimicotici); per questi motivi attraverso Kesa abhyanga si può ridare lucentezza ai capelli, stimolarne la crescita (Brahmi, Centella, etc), ritardare l’insorgenza dei capelli bianchi e contrastarne la caduta; con particolari formulazioni medicate è possibile poi trattare forme di dermatiti e il fastidioso disturbo della forfora.

Nel recentissimo articolo proposto (Aprile 2018) il professor Kavita Daulatkar (Dept. of Samhita Siddhant, Bhausaheb Mulak Ayurveda Mahavidyalaya, Nagpur, Maharashtra, India) illustra in modo sintetico la visione Ayurvedica per salute dei capelli concentrandosi in modo particolare sul fastidioso disturbo della forfora e su quali possano essere i modi per contrastarla.

Nell’introduzione dell’articolo viene innanzitutto premesso come fondamento che, secondo l’Ayurveda, i capelli e le unghie siano il sottoprodotto (Updhatu) del metabolismo osseo.

Sempre secondo la visione ayurvedica il tessuto osseo deve primariamente il suo stato di buona salute allo stato di buona salute del tessuto grasso che deve essere adeguatamente nutrito e mantenuto pulito (purificato) con una dieta corretta che eviti l’accumulo di tossine (purificazione attraverso la dieta); la corretta nutrizione del tessuto grasso si riflette quindi sulla buona salute del tessuto osseo e quindi successivamente su quella di capelli e unghie oltre che della pelle; le impurità del tessuto grasso provocano indebolimento della produzione del tessuto osseo e questa condizione provoca opacità e debolezza dei capelli, fragilità delle unghie e disturbi tissutali dermatologici come la forfora. In Ayurveda i follicoli piliferi sono chiamati Romakoopa.

In ayurveda la forfora è indicata come Darunaka e inquadrata come Kshudra Rogas cioè una “malattia minore” non infettiva del cuoio capelluto. Più raramente la forfora può presentarsi anche sulla faccia, orecchie, nelle pieghe del corpo, sul collo e sulla parte anteriore del torace. Il problema della forfora non rappresenta solo un disturbo di condizione fisica ma viene associata anche problemi sociali e di autostima.

Il problema della forfora nei capelli può insorgere per diversi motivi ad esempio per prevalenza di “secchezza” ma anche di “grassezza” o “freddezza”; concorrono poi altri fattori come lo stress e l’ansia ma anche, a volte, patologie come la psoriasi, la dermatite seborroica, l’eczema, l’iperattività delle ghiandole sudoripare; altri agenti ambientali come polvere, luce solare, oppure l’uso intensivo di saponi e shampoo aggressivi e persino certi tipi di cibo possono causare il problema della forfora.

Secondo lo studio il problema della forfora coinvolgerebbe prevalentemente Vata e Pitta (Prakopa) rifacendosi al coinvolgimento di Vata nel regolare secchezza della pelle (causa di forfora) tuttavia in presenza di un cuoio capelluto eccessivamente grasso (che analogamente può essere causa di forfora) si dovrebbe tenere conto dell’Influenza di Kapha con Vata.

In alcuni soggetti deve poi essere tenuta in primaria considerazione una speciale sensibilità della pelle a cambiamenti stagionali come il freddo o l’eccessivo calore o a particolari sostanze chimiche (anche naturali) contenute in cosmetici (shampoo, gel. etc.).

Sostanze come tabacco, il tè, il fumo e lo stress influiscono direttamente sulla forfora così come trattamenti cosmetici aggressivi per capelli che ne alterano la fisiologica struttura (es. il trattamento della “piega permanente” oppure la ricolorazione) poiché influiscono negativamente a vari livelli sul cuoio capelluto e sulla pelle.

Secondo la visione ayurvedica, anche questo problema, come per gran parte delle malattie, sarebbe quindi prevalente la presenza di impurità nel sangue che determina squilibrio dei Dosha nel sangue.

Lo studio riporta che, secondo l’Ayurveda, le principali Hetu (cause) di Darunaka sono: eccessiva esposizione al sole e ad ambienti caldi, assunzione eccessiva di cibi troppo gustosi e saporiti, eccessiva esposizione all’acqua fredda per lungo tempo, esposizione a polvere-nebbia-fumo, sudorazione eccessiva, mancanza di abitudini igieniche, mancanza di oleazione dei capelli, cattiva qualità del sonno.

Caratteristiche cliniche di forfora sono Keshachyuti (caduta dei capelli), Kandu (sensazione di prurito sul cuoio capelluto),Twaksputana (fragilità della pelle), Daruna (secchezza e danneggiamento del cuoio capelluto, comparsa di squame bianche sul cuoio capelluto), Daha (sensazione di bruciore), Gaura (pesantezza), Toda (sensazione di pizzicore).

Poiché la forfora è inquadrata come Kshudraroga, la sua gestione rientra Kshudraroga Chikitsa, e coinvolge tutti i Dosha ma prevalentemente Pitta e Vata che interagiscono nell’accumulare impurezze (Ama) nei tessuti profondi del cuoio capelluto come risulta molto evidente nei quadri più impegnativi.

A seguito della contaminazione dei tessuti profondi ad opera di Vata-Pitta Dosha si ha un danneggiamento del cuoio capelluto sul quale affioreranno maggiori quantità di cellule morte causando la forfora.

La visione biomedica occidentale del problema della forfora trova molti punti in comune con quella tradizionale ayurvedica anche se, tra le cause della forfora, indica anche la presenza delle specie micotiche Malassezia furfur e/o Malassezia globosa che sono due lieviti normalmente presenti sulla cute, ma che possono prolificare ad esempio in presenza di iperproduzione di sebo anche modulata dall’effetto degli ormoni androgeni (testosterone) oppure in situazioni di stress oppure anche per reazioni della pelle a sostanze chimiche. In occidente il problema della forfora colpisce maggiormente il sesso maschile, prevalentemente tra i 12 e i 40 anni di età, mentre è più rara negli anziani e una strategia di prevenzione risulta vincente negli individui predisposti. Sulla base quindi delle evidenze delle possibili cause del problema si raccomanderebbe di adottare una dieta ricca di sostanze antiossidanti (frutta e verdura) ed evitare un’assunzione eccessiva di grassi. Risulta inoltre utile un’integrazione a base di acidi grassi polinsaturi. Tra i fenomeni che possono creare irritazione locale e provocare desquamazione vengono individuati anche l’eccessiva sudorazione del cuoio capelluto, l’utilizzo intensivo di shampoo con tensioattivi aggressivi, di gel, schiume, lacche. Da evitare sarebbe inoltre l’utilizzo di asciugacapelli a temperature molto elevate e lavaggio del capo con acqua troppo calda.

In linea di principio bisognerebbe mantenere il più possibile la fisiologica condizione del capello e del cuoio capelluto evitando alterazioni del fisiologico pH.

Per il trattamento vengono raccomandati prodotti emollienti e lenitivi su base oleosa che facilitano il distacco delle squame e l’utilizzo di shampoo cheratoregolatori prevalentemente a base di ketoconazolo e climbazolo mentre nei casi più importanti vengono prescritti prodotti cortisonici per applicazione locale.

La linea di trattamento ayurvedica consiste nel regolare i domini di Pitta e Vata attraverso preparati erbali topici, dieta e gestione dello stile di vita insieme ai trattamenti Panchakarma. Alcune erbe specifiche possono essere somministrate anche oralmente per purificare il corpo dalle impurità digestive accumulate.

Secondo lo studio, così potrebbe essere strutturata la moderna gestione Ayurvedica della salute dei capelli e della forfora:

-Dieta

Cibi non piccanti, frutta fresca succosa, verdure cotte e verdure a foglia verde (prevalentemente con un gusto amaro) aiuteranno la salute dei capelli. Alcune prodotti stagionali come il fieno greco, la curcuma e il coriandolo, il cumino, il burro chiarificato, l’olio aiuteranno anche a purificare il tessuto adiposo e a rafforzare il tessuto osseo. Alimentarsi con cibo con un buon valore nutritivo e ricco di fibre, (insalate, frutta e lenticchie) aggiungendo anche il cocco. Si raccomanda inoltre una corretta assunzione di acqua e l’uso sempre di grassi salutari come il ghee in cucina.

-Panchakarma

Snehana (Massaggio): Il massaggio con olio caldo dei capelli e del cuoio capelluto, specialmente se fatto con oli medicati con erbe Keshya (nutrienti per i capelli), nutre i capelli e il cuoio capelluto, idrata il cuoio capelluto asciutto, migliora la circolazione sanguigna; questi interventi con oli aiuteranno a mantenere capelli lunghi, lucenti, forti, brillanti e robusti. Per queste preparazioni sono indicate infusioni in olio di sesamo o di cocco con erbe specifiche come Brahmi (Bacopa monnieri), Bhringaraj (Eclipta alba) Amalaki (Emblica officinalis) che aiutano a mantenere il colore e la lucentezza dei capelli.

-Nasya: Nasya è indicato in tutti gli Urdhawa Jatrugatvyadhi (disturbi/malattie della testa), l’olio medicato per Nasya migliorerebbe la condizione dei capelli.

-Yoga e esercizio fisico possono ridurre al minimo i livelli di stress.

– Applicazione di Taila medicati per capelli a base di erbe indicati per la salute dei capelli e per combattere la forfora come Brahmi Taila (con probabili effetti pro circolatori e trofici cellulari nel follicolo pilifero), Triphaladya Taila, etc.

– Assunzione di medicamenti naturali interni come: Triphala Rasayana (migliora l’immunità, purifica il sangue), Saptamritaloha (contiene liquirizia indiana e Triphala, utili per le malattie della pelle), etc..

A cura della direzione scientifica di Benefica

Journal of Ayurveda and Integrated Medical Sciences | Mar – Apr 2018 | Vol. 3 | Issue 2

DANDRUFF – AYURVEDA MANAGEMENT FOR BETTER HAIR CARE 

Kavita Daulatkar(1)

Author information:

(1) Professor, Dept. of Samhita Siddhant, Bhausaheb Mulak Ayurveda Mahavidyalaya, Nagpur, Maharashtra, India.

Charaka publications

ABSTRACT

According to Ayurveda, hair and nails are the Upadhatu of bone metabolism.

In some individuals, the skin are very sensitive to seasonal changes and factors like cold, heat, cosmetics and shampoo etc., that’s why these peoples are on high risk of getting suffered from the condition like Dandruff.

Dandruff can be considered as Darunaka in Ayurveda and refer as minor diseases (Kshudra Rogas). Dandruff is caused due to imbalance due to Doshas.

The primary doshas involved are Pitta and Vata.

The condition like dandruff can be managed with comprehensive approach like diet, Panchakarma along with some internal medicine.

 

ISSN: 2456-3110

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Newsletter Fitoterapia nr. 35 – Giugno 2018

Newsletter n° «35»

Giugno 2018

Phyllanthus niruri L.

Una nuova evidenza nella calcolosi renale

International braz j urol: official journal of the Brazilian Society of Urology, 44.

Effect of phyllanthus niruri on metabolic parameters of patients with kidney stone: a perspective for disease prevention.

Pucci, N. D., Marchini, G. S., Mazzucchi, E., Reis, S. T., Srougi, M., Evazian, D., & Nahas, W. C. (2018).

Phyllanthus niruri: una pianta versatile

Secondo la recente scienza botanica Phyllanthus niruri L. è un sinonimo di Phyllanthus amarus Schumach. & Thonn nome botanico che dai primi anni ottanta ha rinominato il particolare genere della famiglia delle Phyllanthaceae al quale apparteneva Phyllanthus niruri L.; nella frequente confusione generata dalla nuova nomenclatura, sembrerebbe tuttavia che i vari sinonimi botanici di questa pianta identifichino varianti (a volte minime) della stessa che, pur con minime diversità fitochimiche quantitative, sono sostanzialmente identiche.

Solo a titolo di esempio citiamo di seguito alcuni dei diversi sinonimi botanici Diasperus nanus (Hook.f.) Kuntze, Phyllanthus nanus Hook.f., Phyllanthus niruri var. amarus (Schumach. & Thonn.) Leandri, Phyllanthus niruri var. scabrellus (Webb) Müll.Arg., Phyllanthus scabrellus Webb, Phyllanthus swartzii Kostel (India Biodiversity Portal).

Per questi motivi nella letteratura scientifica questa preziosa pianta viene citata con nomi diversi ma per una precisa valutazione di reali differenze di effetti medicamentosi ci si dovrebbe basare su analisi chimico fisiche per determinare aspetti di biodiversità.

Per ottenere omogeneità di effetti medicamentosi la filiera di qualità delle varie forme farmaceutiche dovrebbe essere garantita per standardizzazione.

Phyllanthus niruri appartiene alla famiglia delle Phyllanthaceae ed è stato impiegato per millenni in diversi sistemi di Medicina Tradizionale come quella ayurvedica (Jar Amla), indonesiana e brasiliana ma cresce spontaneo anche nel sud Italia, dove, noto con il nome di “erba spaccapietra”, in forma prevalentemente di infuso o decotto, è stato sempre impiegato per contrastare la calcolosi renale e per supportare in generale la funzionalità del sistema urinario così come anche in Brasile dove la pianta è conosciuta come “chancapiedra”.

L’uso più antico e ricorrente nei principali sistemi di medicina tradizionale è quello di aiuto nelle epatopatie di diversa origine e nelle epatiti (prevalentemente B); in letteratura ricorrono anche citazioni come ipoglicemizzante ed antifebbrile.

Per l’uso medicinale si impiega prevalentemente la radice della pianta per gli effetti epatici ed invece la pianta intera per gli effetti urinari. Le forme farmaceutiche di somministrazione possono essere il decotto, la polvere della droga oppure, nelle moderne formulazioni di integratori naturali specifici, l’estratto secco della droga titolato in tannini totali (sostanze amare) mediamente tra il 3 ed il 10 %. La letteratura scientifica non è attualmente concorde nell’individuare dosaggi specifici dell’estratto secco tuttavia una standardizzazione media di circa 50 mg di tannini totali/die viene ritenuta utile per gli effetti urinari.

Nel 1998 un importante studio farmacologico (Calixto et al.) ha individuato i principali costituenti chimici del fitocomplesso di Phyllanthus nel quale si ritrovano alcaloidi, benzenoidi, cumarine, flavonoidi, lignani, lipidi, steroli, tannini e triterpeni.

Gli effetti “epatoprotettivi” di Phyllanthus sembrerebbero derivare da alcune sostanze farmacologicamente attive e concentrate soprattutto nella radici (fillantina, ipofillantina, triacontanale e tricontanolo) che si dimostrano in grado, come ben accertato nei modelli sperimentali, di esercitare un potente effetto antiossidante proteggendo gli epatociti dall’azione nociva del tetracloruro di carbonio e della galattosamina.

Le prime indagini scientifiche sugli effetti antivirali di Phyllanthus niruri risalgono ai primi anni ottanta quando è stato provato, in vitro, che un estratto di “Phyllanthus” è stato in grado di inibire sensibilmente il titolo dell’antigene di superficie del virus dell’epatite B e successivamente sulla marmotta (modello animale in cui la patologia è simile all’uomo) è stato dimostrato che un estratto acquoso della pianta è stato in grado di diminuire i livelli di antigene di superficie del virus dell’epatite B sopprimendo l’attività delle DNA polimerasi endogene nel gruppo trattato rispetto ad un gruppo di controllo; nel gruppo trattato la somministrazione i.p. dell’estratto acquoso è stato in grado di eliminare (mediamente in un mese) dal siero sia il titolo antigenico che l’attività della DNA polimerasi virale; al termine del trattamento gli animali trattati rimanevano liberi dai markers specifici fino a quarantacinque settimane.

Successivamente, negli anni novanta, ulteriori studi scientifici condotti su specifiche linee cellulari epatiche infettate con il virus dell’epatite B hanno dimostrato che Phyllanthus (niruri e/o amarus) è stato in grado di inibire il rilascio di virus nel medium cellulare; questi dati indicherebbero la potenzialità benefica sulle epatiti di tipo B, probabilmente attraverso l’inibizione dell’attività delle polimerasi, della trascrizione del m-RNA e della replicazione virale.

Nel 1988 Thyagarajan et al. osservarono per primi che un estratto a base di polvere di Phyllanthus amarus (200 mg somministrato per un mese tre volte al giorno) in 37 soggetti portatori di epatite virale B determinava la soppressione dell’antigene di superficie del virus dell’epatite B (59% dei pazienti del gruppo verum). I principali responsabili di questi effetti sarebbe i tannini del tipo dell’acido ellagico, che risultano attivi contro numerosi virus di piante e animali; tra questi tannini l’ipofillantoina, un lignano, ha dimostrato anche in altri studi un’attività antivirale piuttosto ampia oltre che una significativa attività epatoprotettiva come dimostrato per fillantoina e l’ipofillantoina da Syamasundar nel 1985.

La letteratura scientifica non è concorde nello stabilire i potenziali effetti antivirali del genere Phyllanthus tuttavia le discrepanze nei risultati degli studi scientifici potrebbero dipendere anche dal tipo di materia vegetale impiegata, dal tempo di raccolta e da altri importanti fattori di biodiversità. Altri studi scientifici hanno ad esempio dimostrato che il contenuto di fertilizzanti del suolo ed umidità dello stesso possono influenzare l’attività inibitoria dei generi Phyllanthus sulla polimerasi virale e che questa possa crucialmente dipendere dalla variabilità genetica di esemplari coltivati da semi provenienti dall’India, dalla Costa d’Avorio, dalle Hawaii, da Puerto Rico e da Trinidad. Nella valutazione quindi di potenziali effetti medicamentosi di questa famiglia di officinali il luogo di provenienza e filiera della qualità sono fondamentali.

Rispetto agli effetti a favore della funzionalità dell’apparato urinario sembrerebbero molto attivi estratti da officinali provenienti dall’India o dal Brasile mentre i generi coltivati in Indonesia sembrerebbero molto attivi per effetti epato trofici, tuttavia non è possibile fare affermazioni assolute tenendo conto delle variabili di biodiversità possibili anche nelle stesse zone di coltivazione; soltanto adeguate certificazioni fisico-chimiche delle materie vegetali impiegate possono confermare la prevalenza nel fitocomplesso di sostanze chimiche utili farmacologicamente per i vari usi medicamentosi.

Gli effetti del genere Phyllanthus a favore della funzionalità dell’apparato urinario sono tradizionalmente riferiti alla capacità del fitocomplesso di modulare la contrazione della vescica urinaria esercitando un effetto diuretico ed anche antispasmodico; questi effetti sarebbero d’aiuto anche nella nell’eliminazione di calcoli urinari di piccole dimensioni o di frammenti di essi o più tipicamente della “renella”.

Dai primi anni 2000 l’interesse scientifico si è focalizzato sul potenziale di Phyllanthus niruri in contrasto alla calcolosi urinaria indagando le motivazioni che, per l’uso tradizionale, hanno fatto conoscere il Phyllantus niruri come “Erba spaccapietra”.

Sull’argomento la letteratura scientifica è piuttosto approfondita e diversi sono gli studi clinici condotti anche sull’uomo; tra questi citiamo un importante studio clinico condotto in Italia (Bianchi et al 2006 – PubMed) che suggerisce una spiegazione dei meccanismi di attività di Phyllanthus nella calcolosi urinaria; nello studio clinico si è osservato che “l’erba spaccapietra” interferisce con i meccanismi coinvolti nella genesi e nella nucleazione dei calcoli urinari prevalentemente sulla base di ossalato di calcio.

Secondo questo studio Phyllanthus niruri favorirebbe infatti la riduzione dei livelli di ossalato di calcio urinario e favorirebbe un maggior rilascio di glicosaminiglicani che, con il ruolo di rivestimento proteico sui cristalli, ne impedirebbe l’aggregazione e quindi la successiva organizzazione in forma di calcolo; questo meccanismo spiegherebbe anche per quale motivo calcoli già preformati si indebolirebbero diventando più fragili, lisci e più facilmente frantumabili. In questo studio clinico si è valutato l’effetto di Phyllanthus niruri anche come coadiuvante dell’intervento di litotrissia extracorporea: 118 pazienti affetti da calcolosi renale (per natura nota o sospetta calcica) sono stati divisi in due gruppi omogenei per localizzazione (rene) e dimensione dei calcoli (media 1 cm) e successivamente entrambi i gruppi sono stati sottoposti ad intervento di litotrissia extracorporea; dopo l’intervento in gruppo è stata somministrata per tre mesi una terapia standard (idratazione e terapia antidolorifica) mentre nel secondo gruppo, sempre per tre mesi, alla terapia standard è stato somministrato anche un preparato a base di Phyllanthus niruri. Durante i tre mesi di trattamento post litotrissia, con esami specifici (rx pelvi e addome ed ecografia reno vescicale), si è valutata l’eliminazione dei frammenti litiasici e nel gruppo trattato con Phyllanthus niruri (calcolosi caliceale inferiore) la percentuale di successo è stata del 94 % contro il 64 % del gruppo non trattato. Nello studio il trattamento con Phyllanthus niruri è stato perfettamente tollerato dai pazienti, senza effetti collaterali o indesiderati.

Dai dati della letteratura scientifica più recente si è oggi concordi nel valutare l’effetto di Phyllanthus niruri nella calcolosi renale in modo globale per effetti di facilitazione espulsiva di frammenti di calcolo o di calcoli di piccola dimensione, di contrasto dei meccanismi di “nucleazione” della formazione dei calcoli urinari (prevalentemente composti da ossalato di calcio) e sembrerebbe emergente un ruolo fondamentale di Phyllanthus niruri nel modulare positivamente, per significativi effetti antiossidanti, le alterazioni metaboliche correlate con le alterazioni fisico chimiche dell’ambiente urinario.

Studi sperimentali confermerebbero anche l’uso di estratti da foglie di Phyllanthus niruri come ipoglicemizzanti naturali. 

L’articolo in breve

Il recentissimo articolo che segnaliamo (marzo 2018) arricchisce le conoscenze sull’uso clinico di Phyllanthus niruri in contrasto alla calcolosi urinaria; lo studio clinico è stato condotto in ambiente universitario e pubblicato da International Brazilian Journal of Urology: official journal of the Brazilian Society of Urology.

Obiettivo dello studio è stato quello di valutare prospetticamente l’effetto di un infuso di Phyllanthus niruri su parametri metabolici in pazienti con litiasi urinaria.

Per lo studio sono stati arruolati 56 pazienti con calcoli renali di dimensioni <10 mm. All’inizio dello studio i pazienti sono stati valutati con ecografia e con opportune valutazioni biochimiche e successivamente è stato somministrato loro un infuso a base di estratto di Phyllanthus niruri per 12 settimane. Le valutazioni conclusive sono state condotte dopo 12 settimane di Washout.

Le conclusioni dello studio riportano che per tutto il periodo di trattamento non si sono registrati cambiamenti significativi di parametri antropometrici e neppure di parametri fondamentali del siero come emocromo totale, creatinina, uricemia, acido urico, sodio, potassio, calcio, volume urinario e pH;

diversamente nell’urina si è evidenziato un significativo aumento di potassio urinario (p = 0,017); un aumento del rapporto magnesio/creatinina (p = 0,013) e del rapporto potassio/creatinina (p = 0,008) rispetto al basale.

Per ciascun paziente i calcoli renali sono diminuiti da 3,2 ± 2 a 2,0 ± 2 (p <0,001). Nei pazienti con iperossaluria si è osservata una riduzione dell’ ossalato urinario (p = 0,0002), e nei casi iperuricosuria si è osservata una sensibile diminuzione dell’ acido urico urinario (p = 0,0057).

Lo studio conclude che l’assunzione di Phyllanthus niruri (anche per lunghi periodi) è sicura e non causa effetti avversi significativi sui parametri metabolici nel siero, inoltre favorisce l’escrezione urinaria di magnesio e potassio con una significativa diminuzione dell’ossalato urinario e dell’acido urico nei pazienti con iperossaluria e iperuricosuria. L’assunzione di Phyllanthus niruri ha contribuito all’eliminazione di calcoli urinari.


 
International braz j urol: official journal of the Brazilian Society of Urology, 44.

Effect of phyllanthus niruri on metabolic parameters of patients with kidney stone: a perspective for disease prevention.

Nidia D. Pucci 1, Giovanni S. Marchini 2, Eduardo Mazzucchi 2, Sabrina T. Reis 3, Miguel Srougi 2, Denise Evazian 1, William C. Nahas 2

Author information:
1 Divisão de Nutrição e Dietética, Instituto Central, Hospital das Clínicas, Universidade de São Paulo, Faculdade de Medicina. São Paulo, Brasil; 2 Divisão de Urologia, Hospital das Clínicas, Universidade de São Paulo, Faculdade de Medicina, São Paulo, Brasil; 3 Laboratório de Investigação Médica, Universidade de São Paulo, Faculdade de Medicina, São Paulo, Brasil

Abstract

Phyllanthus niruri (P.niruri) or stone breaker is a plant commonly used to reduce stone risk, however, clinical studies on this issue are lacking.  

OBJECTIVE: To prospectively evaluate the effect of P. niruri on the urinary metabolic parameters of patients with urinary lithiasis.

MATERIALS AND METHODS: We studied 56 patients with kidney stones <10mm. Clinical, metabolic, and ultrasonography assessment was conducted before (baseline) the use of P. niruri infusion for 12-weeks (P. niruri) and after a 12-week (wash out) Statistical analysis included ANOVA for repeated measures and Tukey’s/McNemar´s test for categorical variables. Significance was set at 5%.

RESULTS: Mean age was 44±9.2 and BMI was 27.2±4.4kg/m2. Thirty-six patients (64%) were women. There were no significant changes in all periods for anthropometric and several serum measurements, including total blood count, creatinine, uric acid, sodium, potassium, calcium, urine volume and pH; a significant increase in urinary potassium from 50.5±20.4 to 56.2±21.8 mg/24-hour (p=0.017); magnesium/creatinine ratio 58±22.5 to 69.1±28.6mg/ gCr24-hour (p=0.013) and potassium/creatinine ratio 39.3±15.1 to 51.3±34.7mg/gCr24- hour (p=0.008) from baseline to wash out. The kidney stones decreased from 3.2±2 to 2.0±2per patient (p<0.001). In hyperoxaluria patients, urinary oxalate reduced from 59.0±11.7 to 28.8±16.0mg/24-hour (p=0.0002), and in hyperuricosuria there was a decrease in urinary uric acid from 0.77±0.22 to 0.54±0.07mg/24-hour (p=0.0057).

CONCLUSION: P.niruri intake is safe and does not cause significant adverse effects on serum metabolic parameters. It increases urinary excretion of magnesium and potassium caused a significant decrease in urinary oxalate and uric acid in patients with hyperoxaluria and hyperuricosuria. The consumption of P.niruri contributed to the elimination of urinary calculi.

doi: 10.1590/S1677-5538.IBJU.2017.05

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Newsletter Ayurveda nr. 43 – Maggio 2018

Newsletter n° «43»

Maggio 2018

FOCUS TAILAM

“Bala” in Ksheerabala

Current Traditional Medicine, 2015, 1, 5-17 5

SIDA CORDIFOLIA, A TRADITIONAL HERB IN MODERN PERSPECTIVE – A REVIEW 

Ahmed Galal, Vijayasankar Raman and Ikhlas A. Khan

Introduzione

Ksheerabala è uno tra i più noti “Taila” di impiego ayurvedico; il suo nome è composto dal termine “Ksheera” che significa “latte”, e dal termine “Bala” letteralmente “la forza” per la prevalente presenza, nell’antica formula originale, di Sida cordifolia identificata con il nome tradizionale “Bala”.

Come curiosità gli abitanti del Belgio (i Belgi) devono il loro nome proprio alla parola sanscrita “Bala” e precisamente al temine Bala-ja che significa “figli dei forti” (Paul Gibier).

Riferimenti a Ksheerabala sono rintracciabili in Ashtanga Hridaya che lo indica per il trattamento di “80 disturbi di Vata”, grazie alle proprietà farmacologiche di Sida cordifolia (toniche, ringiovanenti, nervine) che rendono questo taila versatile anche in presenza di stress fisico e mentale dove prevalga vizio del Dosha Vata. In Ksheerabala la componente “Ksheera” (latte) contribuisce ad effetti addolcenti utili anche a riequilibrare il Dosha Pitta.

La formula di Ksheerabala è una delle più semplici tra quelle dei Taila classici, tuttavia l’esperienza tradizionale ci tramanda testimonianza dei suoi potenti effetti; questi sono dovuti alla prevalente presenza nella formula degli estratti oleosi di “Bala” (Sida cordifolia L.) una antica e pregiata pianta medicinale che anche nei nostri giorni è oggetto di continuo studio anche della moderna farmacognosia.

In questa Newsletter proponiamo una lettura di sintesi di una importante Review, pubblicata nel 2015 da Current Traditional Medicine, che tratteggia il profilo di Sida cordifolia L. in modo esaustivo ed anche critico. Lo studio è stato condotto da ricercatori dell’Università in Mississippi negli USA e illustra gli effetti anche meno noti di quest’officinale molto conosciuto nel mondo anche come psico attivo.

E’ utile da subito evidenziare che i diversi effetti farmacologici descritti nell’articolo sono relativi anche alla somministrazione per via orale od inalatoria; proprio per la potenza e peculiarità del profilo farmacologico di questa straordinaria pianta, il suo uso è vietato in più paesi europei ed anche in Italia, per la formulazione di integratori per via orale (molto noti quelli “dimagranti” per effetti anoressizzanti) per evitarne l’assunzione per motivi d’abuso. Gli effetti centrali infatti derivano dall’ingestione o inalazione di preparati da parti diverse della pianta.

L’impiego di “Bala” invece è ampiamente ammesso e ritenuto sicuro per formulazioni topiche e dermocosmetiche.

I contenuti dell’articolo hanno l’esclusiva finalità di riferire della completezza del profilo medicamentoso di Sida cordifolia L..

Sida cordifolia: note generali

Popolarmente Sida cordifolia L. è conosciuta come “Bala”, che come abbiamo detto significa “Forza” e non è un caso che l’antica e precisa lingua sanscrita (Vedica) abbia utilizzato proprio il termine “Bala” per identificare le piante del genere Sida, in relazione ai loro potenti effetti farmacologici. Bala appartiene alla famiglia delle Malvaceae e la sua radice è considerata una “droga” elettiva (droga: tecnicamente la parte dell’officinale utilizzato a scopi medicamentosi) nel sistema medico ayurvedico, tuttavia se ne ritrova l’uso anche nei sistemi medici tradizionali Cinese e Brasiliano oltre che in altre culture mediche; denominatore comune dell’uso di Sida cordifolia L. in queste importanti culture mediche tradizionali è la sua indicazione prevalente nelle problematiche di natura infiammatoria come antireumatico, antipiretico, analgesico, antiasmatico e come anti congestionante nasale oltre che come antidolorifico specifico nelle sciatalgie, tuttavia si ritrovano anche utilizzi tradizionali come lassativo e diuretico. Più recentemente la letteratura scientifica sta approfondendo l’importante ruolo di Sida cordifolia nel ridurre la gravità del parkinsonismo, come afrodisiaco, come aiuto alla riduzione del peso corporeo, come immunomodulatore ed epatoprotettivo, cardiotonico e, curiosità, anche come preventivo della carie dentale.

“Bala”: questione di nome?

Dal punto di vista della corretta identificazione botanica di “Bala” (Forza- pianta della Forza – che rende forti) bisogna tener presente che questo antico nome, che dovrebbe essere attribuito alla sola Sida cordifolia L, può identificare diverse specie di Sida, al punto che nella stessa India “Bala” può indicare Sida codifolia L. (aka Bala nel nord indiano) oppure Sida alnifolia (ugualmente chiamata Bala nell’India meridionale); in letteratura il nome Bala si ritrova anche riferito a Sida rhombifolia ed altre specie tassonomiche della stessa famiglia; per questi motivi attualmente si ritiene ad esempio che Sida acuta e Sida rhombifolia possano essere impiegate come sostitute od adulteranti, nelle formulazioni ayurvediche originali, poiché presentano un profilo in alcalodi simile a quello di Sida cordifolia L..

“Bala”: una questione di qualità

Sida cordifolia è tutt’ora molto utilizzata nella Medicina ayurvedica (Taila), nella Medicina siddha oltre che in altri sistemi di Medicina popolare, al punto che nel periodo 2005-2006 il suo consumo è stato stimato in 5505 milioni di tonnellate e bisogna tenere in considerazione che la materia dovrebbe provenire esclusivamente da habitat spontanei e selvaggi; per la raccolta di “Bala” è raccomandata la selezione della sola “radice” e non dei suoi semi o della pianta intera e a maggior ragione non è raccomandabile la raccolta di altre specie come la Sidha rhombifolia, la Sida cordata o la Sida acuta.

A parte il problema della corretta attribuzione del nome botanico, che potrebbe mettere in difficoltà anche un esperto del settore, i problemi derivanti solo anche dalle similitudini morfologiche di foglie e fiore delle diverse specie, impongono grande esperienza nella raccolta e nella selezione di “Bala” e per la produzione di prodotti “originali” solamente produttori tradizionalmente specializzati possono garantire l’adeguata qualità di questa complessa filiera ai fini del “valore” dei loro prodotti e della loro sicurezza d’impiego.

Il genere Sida L. (famiglia delle Malvaceae) comprende circa 250 specie distribuite principalmente in zone tropicali, e la specie Sida cordifolia si ritiene indigena dell’ Africa, dell’ Asia tropicale e temperata e del Sud America; attualmente la si ritrova anche in altre regioni (è ora quasi pantropica) tuttavia in via di estinzione.

Sinonimi botanici di di Sida cordifolia L possono essere: Sida herbacea Cav.; Sida holosericea Willd. ex Spreng.; Sida hongkongensis Gand.; Sida rotundifolia Lam. Ex Cav.

Catalogabile tra le piante aromatiche si presenta in natura con altezza fino ad un metro e foglie ovalari con bei fiori di giallo intenso.

Usi medicinali tradizionali

In India “Bala” è ritenuta una delle piante medicinali più preziose ed è stata largamente prescritta dalla Medicina ayurvedica; di “Bala” sono prevalentemente sfruttate le radici, ma anche foglie e steli, per contrastare la dissenteria cronica, la gonorrea e l’asma ed attualmente ancora come afrodisiaci e per contrastare le malattie degenerative come il Parkinson.

Secondo fonti storiche e recente letteratura scientifica le radici di Sida cordifolia L. dimostrano utilità nell’alleviare anche disturbi nervosi come la paralisi facciale, l’emiplegia, oltre che nei disturbi urinari.

La corteccia della pianta viene invece sfruttata prevalentemente come stomachico, demulcente, tonico, astringente, principio amaro diuretico, aromatico e come agente antivirale.

I semi di Sida cordifolia sono conosciti come afrodisiaco naturale oltre che nel trattamento della gonorrea, delle cistiti, delle coliche e del tenesmo rettale; sembra che i semi possano tuttavia indurre innalzamento della pressione sanguigna.

Anche nella Medicina tradizionale Brasiliana, “Bala”, conosciuta come “Malva branca” o “Malva branca sedosa” è stata largamente impiegata per il trattamento dell’infiammazione della mucosa orale, della bronchite asmatica, della congestione nasale, della blenorrea, della stomatite, dell’asma e dei reumatismi oltre che come analgesico; sempre in Brasile se ne sono ampiamente sfruttati i potenziali antimicrobici.

In Cina la Sida cordifolia L. è considerata come equivalente erboristico di Efedra, mentre, come curiosità, in Kenya è utilizzato per l’igiene dentale.

Cosa contiene “Bala”?

Come abbiamo detto l’impiego, come pianta medicinale, di “Bala” ne ha sfruttato tradizionalmente i benefici in più problematiche anche importanti, basti pensare al suo potente effetto antinfiammatorio o sul Sistema Nervoso Centrale.

Questi effetti medicamentosi derivano dalla presenza, nelle varie parti della pianta, di sostanze farmacologicamente molto attive; nelle radici si concentrano alcune tra le sostanze più attive tra cui due principali tipi di alcalodi (rappresentati da p-fenetilamine e responsabili dell’attività su Sistema nervoso centrale) e tre alcaloidi della chinazolina.

Un particolare alcaloide della chinazolina [denominato 5`-idrossimetil-1`- (1,2,3,9- tetraidro-pirrolo [2, 1-b] chinazolina-1-il) – hepta-1-one] è stato isolato anche nelle parti aeree di Sida cordifolia; questa sostanza ha dimostrato spiccata attività analgesica e antinfiammatoria nel modello sperimentale.

Come noto alcuni alcaloidi contenuti in ”Bala” sono identificati come precursori della potente efedrina (alcaloide, contenuto nelle piante del genere Efedra, dotato di azione terapeutica nelle malattie cardiovascolari, nell’asma e in alcune malattie nervose; viene prodotta anche sinteticamente) mentre sembrerebbero invece contrastanti le evidenze sulla reale presenza in “Bala” della specifica molecola efedrina la cui presenza è stata provata in alcuni studi (tra 0,8 e 1,2 %) e smentita, anche recentemente in altri. Queste differenze dipenderebbero dalla biodiversità delle materie prime analizzate.

La certezza della reale presenza di efedrina come tale in Sida cordifolia L. rappresenta uno dei punti cruciali per la sua sicurezza di impiego per via orale (o anche inalatoria) mentre non desta preoccupazioni per la somministrazione topica.

Analogamente, secondo recente letteratura scientifica, appare discordante la presenza di un altro importante e potente alcaloide chiamato criptolepina.

Distribuite percentualmente in modo diverso nelle varie parti della pianta ma sempre molto concentrate nelle radici, si ritrovano poi molte altre preziose sostanze tra le quali i flavonoidi (potenti antiossidanti naturali), variabilmente i fitoectodisteroidi (triterpeni dal potente effetto adattogeno ed importanti per diverse attività farmacologiche) e diverse altre strutture steroidali (farmacologicamente sempre molto attive) oltre che ad acidi grassi che si concentrano anche nell’olio essenziale di foglie fresche di Sida cordifolia.

Tutte le eventuali diversità del fitocomplesso, e quindi del prodotto che lo contiene, dipendono dalla biodiversità dell’officinale (influenza del luogo di raccolta, tempo balsamico) oltre che dalle metodiche estrattive e da altre importanti caratteristiche della filiera della qualità del prodotto finito.

Gli estratti di Sida cordifolia vengono standardizzati su base dei suoi alcaloidi bioattivi visicina e visicinone con metodica HPLC.

“Bala”: alcuni dei suoi effetti

La recente letteratura scientifica ha confermato la potente attività farmacologica di “Bala” ampiamente sperimentata e confermata dai modelli osservazionali dell’antico uso tradizionale.

Gli effetti farmacologici e biologici di Sida cordifolia sono stati ampiamente oggi chiariti sul sistema cardiovascolare, sul Sistema Nervoso Centrale, oltre a quelli anti antinfiammatori ed analgesici, antipiretici, ipoglicemizzanti, anti-ulcerogeni, anti – HIV-1 ed apatoprotettori.

Un recente studio sull’animale ha inoltre dimostrato la capacità di un estratto acquoso di “Bala” di esercitare effetti neuroprotettivi, anti-infiammatori ed antiossidanti paragonabili al Deprenil (potente antiossidante di sintesi) usato come farmaco di riferimento in un modello di neuro tossicità indotta sperimentalmente.

Gli effetti antinfiammatori e analgesici di “Bala” sono stati ampiamente studiati in modelli sperimentali che indicano che gli estratti da radice si dimostrano attivi nel contrastare l’infiammazione farmacologicamente indotta con effetti simili al farmaco di confronto indometacina (un potente antinfiammatorio ed analgesico di sintesi). Analogamente, effetti antinfiammatori ed analgesici, sono stati accertati anche per estratti di sole foglie facendone ipotizzare anche un effetto centrale. Gli studi sperimentali suggeriscono che gli effetti anti infiammatori ed antidolorifici dipendano prevalentemente dalla capacità di “Bala” di interferire con i percorsi della ciclossigenasi e di impedire la produzione di sostanze biologicamente responsabili di infiammazione e dolore.

In altri studi sperimentali è stato inoltre osservato un effetto antipiretico e anti-ulcerogenico con ottima tollerabilità; gli effetti anti-ulcerogenici sono stati studiati in modelli di ulcere indotte con aspirina e metanolo. Ulteriori studi hanno indicato la capacità di estratti di foglie di “Bala” di esercitare effetti antinocicettivi orofacciali e cioè la capacità di interferire con processi sensoriali che rilevano e convogliano i segnali e le sensazioni di dolore. In alcuni altri modelli si è inoltre studiata la capacità di estratti di “Bala” nell’indurre vaso dilatazione dell’arteria mesenterica coinvolgendo meccanismi specifici (come NO, i canali PGI2 e K +) esercitando azione ipotensiva.

Secondo lo studio in Sida cordifolia, gli effetti anti infiammatori ed analgesici, ampiamente confermati dall’uso tradizionale, si accompagnano anche ad un effetto di natura protettiva anti osteo-artritica; in un modello sperimentale di osteo artrosi indotta da collagene gli effetti protettivi di “Bala” si sono dimostrati superiori a quelli dello Zenzero (Zingiber officinale R.) così come anche osservato negli esami istologici sulle articolazioni che hanno evidenziato un effetto conservativo su sinovia e matrice cartilaginea.

Di particolare interesse, soprattutto nelle somministrazioni topiche a base di Sida cordifolia L., sono gli effetti “trofici” sul derma come suggerito da uno studio condotto su un unguento a base di Sida cordifolia; lo studio in questione ha evidenziato una accelerazione dei tempi di guarigione di ferite di diversa natura; uno studio sperimentale ha inoltre concluso che “Bala” migliora i tempi di epitelizzazione e il contenuto di idrosiiprolina (un aminoacido componente del collagene) nella pelle confrontandone gli effetti con il farmaco di riferimento (sulfadiazina argentica).

I noti effetti antiossidanti di Sida cordifolia si sono evidenziati anche sul sistema cardiovascolare valutando il profilo degli anti ossidanti nel siero in modelli sperimentali di infarto indotto; nei principali studi sull’argomento la pre somministrazione di “Bala” si è correlata con un incremento delle superossido dismutasi (SOD) e della catalasi che vengono riconosciute come indicatrici di cardioprotezione. In uno di questi studi è stata anche osservata la capacità di Sida cordifolia di indurre evidente ipotensione e bradicardia riconducibili ad attività di modulazione indiretta sui recettori muscarinici del cuore e diretta sui recettori muscarinici vascolari favorendo anche il rilascio di protossido d’azoto (notoriamente anestetico).

Studi anche molto recenti stanno approfondendo l’antico approccio con i “Rasayana” nella prevenzione e trattamento di malattie neurodegenerative, come il morbo di Parkinson, il morbo di Alzheimer e la perdita di memoria. Sida Cordifolia è un “Rasayana” tradizionalmente impiegato nel trattamento delle malattie neurodegenerative in quanto, come altri Rasayna, dimostra evidenti effetti antiossidanti nei confronti dei radicali liberi che sono ampiamente ritenuti alla base delle malattie neurodegenerative; gli estratti valutati si sono rivelati di ottima tollerabilità. Uno studio sperimentale molto recente ha osservato, in modelli di parkinsonismo indotto da rotenone, che estratti di Sida cordifolia hanno ridotto l’instabilità posturale e migliorato gli aspetti comportamentali contrastando la riduzione dei livelli di dopamina nel mesencefalo.

Solo per via orale o inalatoria alcuni estratti idroalcolici delle foglie di Sida cordifolia hanno dimostrato di poter indurre depressione del Sistema Nervoso Centrale inducendo alterazioni comportamentali con riduzione dell’attività e del coordinamento motorio.

I principali sistemi di Medicina Tradizionale hanno poi, nei secoli, sfruttato diversi altri effetti medicamentosi di “Bala”; tra di essi si può ricordare una capacità “epatotrofica” dovuta ad attività di rigenerazione epatica dovuta alla stimolazione della proliferazione degli epatociti: questo effetto è stato osservato sperimentalmente nei confronti del danno epatico indotto da alcool, in relazione alla capacità di “Bala” di ripristinare anche i livelli di enzimi antiossidanti e di glutatione (epatoprotettore per eccellenza).

Interessante è anche l’impiego complementare e “non convenzionale” di “Bala” come agente anti-HIV-1 naturale, in relazione alla capacità di ostacolare la produzione di particolari proteine che il virus utilizza per la sua replicazione. Un articolo recente ha dimostrato anche potenziali effetti antidiabetici ed ipocolesterolemizzanti di “Bala”.

Per uso topico Sida cordifolia L risulta sicura e ben tollerata.

TOSSICOLOGIA

Per uso orale l’estratto acquoso di Sida cordifolia è stato testato per potenziale effetto tossico sulla vitalità della linea cellulare PC12 senza segni di tossicità. Un’ulteriore studio di tossicità nel ratto (Current Traditional Medicine, 2015, vol. 1, n. 1 Galal et al.) è risultato essere molto favorevole. Somministrazioni di dosi fino a 5,0 g/kg non sono letali per gli animali.

Nonostante non ci siano state segnalazioni di tossicità associata a Sida cordifolia L., la presenza di particolari alcaloidi e di criptolepine non è stata ancora adeguatamente valutata, e per l’uso orale si impongono valutazione su sicurezza d’uso e possibile tossicità; analogamente la possibile presenza di Criptoleptina (con possibili effetti genotossici) nel fitocomplesso dell’estratto di Sida cordifolia rende la sua sicurezza dell’uso orale discutibile e rappresenta un potenziale rischio per la salute.

Alcuni caratteristiche esotermiche di Sida cordifolia sono simili a quelle di altre specie del genere Sida e possono spesso essere erroneamente identificate. E’ ampiamente riferito che in diversi campioni di prodotti a base di “Bala” disponibili in commercio sono state ritrovate diverse specie di Sida, forse a causa di confusione nell’identificazione.

Nei prodotti posti in commercio per usi medicamentosi e per la ricerca scientifica risulta quindi corretta e preferibile l’autenticazione della materia prima utilizzata.

A cura della direzione scientifica di Benefica

Current Traditional Medicine, 2015, 1, 5-17 5

SIDA CORDIFOLIA, A TRADITIONAL HERB IN MODERN PERSPECTIVE – A REVIEW 

Ahmed Galal(1), Vijayasankar Raman1 and Ikhlas A. Khan(1,2)

Author information:

(1) National Center for Natural Products Research, School of Pharmacy, University of Mississippi, MS-38677, USA

(2) Division of Pharmacognosy, Department of BioMolecular Sciences, School of Pharmacy, University of Mississippi, University, MS-38677, USA

ABSTRACT

Sida cordifolia (Malvaceae) is a highly reputable medicinal herb in the Ayurveda and other traditional systems of medicine in India and various other countries. In the Ayurvedic system of medicine it is used as antirheumatic, analgesic, antipyretic, antiasthmatic, nasal anticongestant, antiviral, laxative, diuretic, aphrodisiac, hypoglycaemic, hepatoprotective and in the treatment of Parkinson’s disease. In order to evaluate this traditional plant in a modern perspective, the current review presents essential aspects of S. cordifolia including taxonomy, uses in disciplined traditional medicines, geographical distribution, chemical constituents, pharmacological studies on plant extracts and on single entity constituents, toxicity, and standardization. The chemical composition of this herb comprises of alkaloids, flavonoids, phytoecdysteroids, sterols and fatty acids. The problem of plant misidentification, due to confusion with other related species, is discussed. This paper reviews the conflicting reports regarding the presence or absence of ephedrine and discusses the claimed utility of this herb as a weight loss aid on the basis of ephedrine purported to be present in this species.

2215-0846/15 © 2015 Bentham Science Publishers

DOI: 10.2174/2215083801666141226215639

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Newsletter Fitoterapia nr. 34 – Maggio 2018

Newsletter n° «34»

Maggio 2018

Rhodiola rosea (Rodiola)

Un adattogeno per gli sportivi

J Sports Med Phys Fitness. 2010 Mar;50(1):57-63.

Effects of chronic Rhodiola Rosea supplementation on sport performance and antioxidant capacity in trained male: preliminary results.

Parisi A, Tranchita E, Duranti G, Ciminelli E, Quaranta F, Ceci R, Cerulli C,  Borrione P, Sabatini S.

Rhodiola rosea nello sport 
In precedenti newsletter abbiamo tratteggiato il profilo di Rhodiola rosea che è una antica pianta medicinale perenne che cresce alle altitudini comprese tra 3300 e 5400 metri sulle montagne del Nord Europa, Asia e America. Essa, presenta radici (rizomi) molto sviluppate che più dei suoi fiori gialli emanano un intenso profumo di rosa (il nome Rhodiola rosea deriva anche dal profumo tipico di rosa).
Studi clinici dimostrano che è una pianta ad attività adattogena in quanto in grado di supportare la resistenza del corpo umano allo stress migliorando le capacità psico-fisiche; i suoi effetti sono la riduzione dei livelli di depressione, fatica, astenia causate dall’intenso stress fisico.
In particolare, la Rhodiola rosea, anche chiamata “Golden root”, (radice d’oro) dimostra di interagire con diversi meccanismi fisiologici: stimola il metabolismo, promuove l’utilizzo dei grassi a livello tissutale e, grazie alla sua funzione ergogenica, migliora la resistenza fisica agli sforzi fisici estenuanti e ha, inoltre, effetti cardio-protettivi.
Inoltre, la Rhodiola rosea sembrerebbe ridurre i livelli di catecolamine e di cAMP circolanti, con un effetto preventivo nei confronti di aritmie e turbe cardiache causate da elevati livelli ematici di catecolamine.
Numerosi studi hanno evidenziato la capacità di questa pianta adattogena di migliorare la performance fisica in animali di laboratorio: è stata, infatti, osservata una miglior performance durante attività in acqua (nuoto forzato) dopo una somministrazione acuta di Rhodiola rosea e Crenulata, probabilmente grazie a un’aumentata capacità di sintesi mitocondriale di adenosina trifosfato (ATP) riscontrata nel tessuto muscolare scheletrico dei ratti esaminati.
Tra i supplementi dietetici impiegati nell’attività sportiva i più comuni, come integratori nutrizionali, sono quelli ricchi di vitamine e minerali che rappresentano il 70-90% di tutti i supplementi attualmente in commercio.
Questo tipo di integrazione è molto diffusa tra atleti a diversi livelli (amatoriale e professionistico) e tra non-atleti, poiché favorisce un assorbimento appropriato di micronutrienti e migliora le performance psico-fisiche.
Recentemente è stato dimostrato che l’assunzione di singoli dosaggi elevati di Rhodiola rosea può migliorare la performance negli esercizi di resistenza. Una recente revisione della letteratura ha dimostrato che la Rhodiola sembra avere un effetto antiossidante, mentre dati statisticamente significativi di una funzione propriamente ergogenica sono tuttora da confermare.
Tuttavia il crescente ed attuale interesse per Rhodiola rosea, come integratore specifico per l’attività sportiva fa riferimento proprio ai suoi effetti definiti genericamente “ergogenici” e che sono stati tradizionalmente sfruttati con finalità adattogene nel corso di secoli ed anche recentemente in ambito militare (Baker B, JMVH Volume 25 Number 2; April 2017, pag. 35-47).
Al fine di valutare l’ipotizzata funzione ergogenica della Rhodiola rosea, lo studio che segnaliamo, pubblicato nel 2010, uno dei pochi disponibili in Pub Med, rappresenta una pietra miliare nelle evidenze degli effetti di Rhodiola rosea nell’attività sportiva, infatti i ricercatori si sono posti l’obiettivo di valutare l’effetto della supplementazione cronica di Rhodiola sulla performance di un gruppo di atleti agonisti.

L’articolo in breve 
Obiettivo dello studio è stato quello di analizzare gli effetti dell’assunzione cronica di Rhodiola rosea sulla performance fisica in un gruppo di atleti agonisti impegnati in sport di resistenza.
L’ipotesi dello studio consisteva nel dimostrare se un’appropriata assunzione di Rhodiola rosea in atleti agonisti, che praticavano sport di resistenza, potesse influenzare i seguenti parametri:

  • la frequenza cardiaca,
  • il tempo di esaurimento
  • la percezione della fatica (valutata tramite la scala di Borg).

Per lo studio, con un estratto di Rhodiola rosea, sono state somministrate anche sostanze con azione antiossidante oltre a probiotici, in grado di migliorare la funzionalità dell’apparato digestivo e favorire l’assorbimento di vitamine e minerali.
Nella letteratura attualmente disponibile vi sono altre evidenze scientifiche riguardanti un effetto positivo di Rhodiola rosea sulle performance negli esercizi di sport di resistenza, ma solo alcuni studi riguardano atleti professionisti e costantemente allenati (McGuine T, 2006 – Soprano JV, 2005).
Per lo studio sono stati arruolati trentaquattro atleti professionisti di sesso maschile costantemente allenati, che praticavano sport di resistenza (età: 24,47±3,17 anni; altezza: 1,76±0,06 m; peso: 70,32±6,10 kg; Body Mass Index 22,63±1,58 kg/m2).
Gli atleti seguivano un programma di allenamento per 8,30±1,30 ore alla settimana.
Durante il periodo dello studio hanno continuato a seguire il loro normale programma di allenamento. Tre dei partecipanti ha abbandonato lo studio a causa di un infortunio; pertanto lo studio ha coinvolto solo 31 atleti.
Prima di iniziare lo studio, tutti i soggetti sono stati sottoposti al test di stress massimale cardio-polmonare a carichi crescenti (40 Watt x 2 min) su ciclo-ergometro collegato a un ergospirometro per valutare il massimo consumo di ossigeno (VO2max).
Durante il test di arruolamento, la frequenza cardiaca è stata monitorizzata tramite un elettrocardiogramma a 12 derivazioni. Inoltre, è stato monitorizzato anche il consumo di ossigeno. La pressione sanguigna arteriosa è stata misurata attraverso uno sfigmomanometro a mercurio durante tutta la durata del test e al termine dell’esercizio.
Il soggetto veniva monitorizzato durante il periodo di recupero, dopo lo sforzo, per cinque minuti, attraverso la registrazione dell’elettrocardiogramma e la rilevazione della pressione sanguigna.
In accordo con i dati della letteratura internazionale, il test di arruolamento veniva interrotto quando si presentava una delle seguenti situazioni:
– insorgenza di sintomi;
– insorgenza di aritmie complicate;
– significative alterazioni del segmento ST;
– esaurimento muscolare
– raggiungimento del massimo consumo di ossigeno.
Come da convenzione, gli autori hanno considerato raggiunto il massimo consumo di ossigeno quando:

  • il soggetto raggiungeva un plateau, ossia quando il VO2 aumentava meno di 150 ml×min-1, salendo da uno step al successivo;
  • il quoziente di scambio respiratorio superava 1,08-1,1;
  • il soggetto presentava più di 10 pulsazioni oltre la frequenza cardiaca massima per l’età.

Al termine del test di ammissione, gli atleti sono stati randomizzati in due gruppi (A e B), con disegno di crossover in doppio cieco.
Il gruppo A è stato sottoposto a supplementazione continuativa con Rhodiola rosea (170 mg/die) ogni mattina per quattro settimane, mentre il gruppo B ha assunto una quantità equivalente di placebo con la stessa modalità di assunzione.
Al termine del periodo di supplementazione, entrambi i gruppi sono stati sottoposti a test di esaurimento cardio-polmonare su ciclo-ergometro al 75% del loro VO2-max.
Al fine di standardizzare le caratteristiche del test, ai soggetti è stato chiesto di seguire i loro normali schemi di allenamento durante il periodo di studio; il giorno prima del test, i partecipanti si sono astenuti da sforzi estenuanti e massivi. Agli atleti è stato, inoltre, chiesto di evitare l’assunzione di caffé e altre bevande stimolanti e hanno seguito la stessa dieta il giorno prima del test (60% carboidrati, 15% proteine, 25% grassi), per minimizzare la variazione di glicogeno a livello muscolare ed epatico.
I parametri monitorizzati durante lo studio sono stati la frequenza cardiaca (heart rate, HR), la pressione arteriosa (blood pressure, BP) e il consumo di ossigeno.
Nello studio sono inoltre stati valutati i seguenti parametri: livelli circolanti di glucosio e FFA; lattato muscolo scheletrico, rilascio di CK e determinazione nel sangue Il-6; stato degli antiossidanti circolanti.

Dopo la prima fase, gli atleti hanno osservato un periodo di wash-out della durata di 14 giorni. Dopo questo periodo, il gruppo B è stato sottoposto a supplementazione continuativa di Rhodiola rosea (170 mg/die) ogni mattino per quattro settimane, mentre il gruppo A ha assunto placebo. Al termine del periodo di supplementazione, tutti i soggetti hanno ripetuto il test di esaurimento cardio-polmonare su ciclo-ergometro, seguendo il medesimo protocollo.
Al termine di ciascun test, tutti gli atleti sono stati sottoposti a valutazione dell’intensità, fatica e sforzo da loro percepiti durante l’esame attraverso la Scala di Borg.
I risultati preliminari del presente studio, sono i seguenti:

  • la HR max è sostanzialmente la stessa sia dopo l’assunzione di placebo (171±7 bpm), che dopo la somministrazione di Rhodiola (171±8 bpm);
  • lo score della scala di Borg non ha evidenziato differenze statisticamente significative dopo entrambe le supplementazioni, rispettivamente di Rhodiola rosea e di placebo, ma quello che è sorprendente è che la supplementazione di Rhodiola rosea ha permesso agli atleti di sostenere uno sforzo maggiore;
  • la differenza tra VO2-max nel gruppo placebo (48,31±7,92 ml/kg/min) e nel gruppo Rhodiola (49,83± 8,21 ml/kg/min) non è risultata statisticamente significativa, mentre la differenza tra il tempo di esaurimento dopo l’assunzione di placebo (18,57±5,13 min) e dopo l’assunzione di Rhodiola (19,59±6,41 min) è risultata statisticamente significativa.
  • Nessuna differenza statisticamente significativa dei livelli glicemici è stata osservata nel gruppo verum rispetto al gruppo placebo
  • Nel gruppo verum gli acidi grassi liberi dal sangue sono risultati ridotti da Rhodiola rosea (9,81 ± 2,45 mg / dL di plasma) rispetto al gruppo placebo (12,41 ± 1,21 mg / dL di plasma).
  • Nel gruppo verum, a differenza del gruppo placebo, si è osservata una riduzione degli FFA a livello acme (P <0,05) e dopo il recupero di 30 minuti (P <0,01) (rispettivamente 7,31 ± 1,31 e 7,01 ± 1,16)
  • Nel gruppo trattato con Rodiola si è osservata una riduzione significativa (P <0,05) dell’incremento del lattato dopo 3 minuti di recupero (160 ± 65% rispetto alla condizione di riposo in gruppo verum rispetto a 320 ± 105% del gruppo placebo rispetto alle condizioni di riposo).
  • Nel gruppo verum, rispetto a placebo si è osservata una riduzione dei livelli di CK significativa (P <0,01) rispetto al controllo (19,35 ± 2,9 U / L plasma in gruppo verum vs. 34,26 ± 5,95 in gruppo placebo ), rispettivamente all’ acme (23,50 ± 3,96 gruppo verum vs. 37,19 ± 7,29 gruppo placebo) e a 30 minuti di recupero (25,7 ± 5,44 gruppo verum vs 35,52 ± 4,20 gruppo placebo).
  • Nessuna differenza significativa dei livelli di Interleukine-6 si è osservata nei due gruppi.

Dal punto di vista dell’utilità pratica della supplementazione con Rodiola rosea, numerosi studi anche recenti hanno dimostrato il potenziale di miglioramento della prestazione fisica con particolare riferimento alla capacità di una supplementazione acuta di Rhodiola rosea (50 mg/die) nel determinare un prolungamento del tempo di esaurimento durante l’attività fisica, aumentando il turnover dell’ATP (come dimostrato nei modello animale), probabilmente come conseguenza di un aumentato consumo di substrato. Ultimamente, è stato dimostrato anche che l’assunzione acuta di Rhodiola rosea è in grado di migliorare, nell’uomo, le prestazioni durante attività fisica di resistenza (McGuine T, 2006).
Pur nei suoi limiti lo studio conclude che la supplementazione continuativa di Rhodiola rosea (170 mg/die per quattro settimane) in atleti di sesso maschile ben allenati sembra migliorare significativamente il tempo di esaurimento durante un test condotto al 75% del VO2-max; pur nell’impossibilità, sulla base delle conclusioni dello studio, di poter trarre conclusioni definitive si può asserire che questo tipo di supplementazione può essere utile a contrastare la fatica nell’attività fisica di resistenza.
La prosecuzione di questo studio pilota ha successivamente previsto un suo approfondimento di valutazione dei parametri metabolici in modo da determinare se Rhodiola rosea possa migliorare significativamente la performance fisica ottimizzando il consumo di substrati e per stabilire il ruolo di Rodiola nell’omeostasi redox plasmatica, nel prevenire la risposta infiammatoria indotta dall’esercizio fisico e il danno muscolo scheletrico.


 
J Sports Med Phys Fitness. 2010 Mar;50(1):57-63.

Effects of chronic Rhodiola Rosea supplementation on sport performance and antioxidant capacity in trained male: preliminary results.

Parisi A (1), Tranchita E, Duranti G, Ciminelli E, Quaranta F, Ceci R, Cerulli C,  Borrione P, Sabatini S.

Author information:
(1)Department of Health Sciences, Laboratory of Sports Medicine and Sport Related Nutrition University of Rome Foro Italico – IUSM, Rome, Italy.

Abstract   

AIM: Rhodiola Rosea, is an adaptogen plant which has been reported to promote fatty acids utilisation, to ameliorate antioxidant function, and to improve body resistance to physical strenuous efforts. The purpose of the present study was to investigate the effects on physical performance as well as on the redox status of a chronic Rhodiola Rosea supplementation in a group of competitive athletes during endurance exercise.

METHODS: Following a chronic supplementation with Rhodiola Rosea for 4 weeks, 14 trained male athletes underwent a cardio-pulmonary exhaustion test and blood samples to evaluate their antioxidant status and other biochemical parameters. These data were compared with those coming from the same athletes after an intake of placebo.

RESULTS: The evaluation of physical performance parameters showed that HR Max, Borg Scale level, VO(2) max and duration of the test were essentially unaffected by Rhodiola Rosea assumption. On the contrary, Rhodiola Rosea intake reduced, in a statistically significative manner, plasma free fatty acids levels. No effect on blood glucose was found. Blood antioxidant status and inflammatory parameters resulted unaffected by Rhodiola Rosea supplementation. Blood lactate and plasma creatine kinase levels were found significantly lower (P<0.05) in Rhodiola Rosea treated subjects when compared to the placebo treated group.

CONCLUSION: Chronic Rhodiola Rosea supplementation is able to reduce both lactate levels and parameters of skeletal muscle damage after an exhaustive exercise session. Moreover this supplementation seems to ameliorate fatty acid consumption. Taken together those observation confirm that Rhodiola Rosea may increase the adaptogen ability to physical exercise.

PMID: 20308973 [Indexed for MEDLINE]

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Newsletter Ayurveda nr. 42 – Aprile 2018

Newsletter n° «42»

Aprile 2018

KATI BASTI: QUALE TEMPERATURA DELL’OLIO?

JOURNAL OF AYURVEDIC AND HERBAL MEDICINE 2017; 3(3): 139-141 

APPROACH TO STANDARDIZATION OF OIL TEMPERATURE IN KATI BASTI – A PILOT STUDY. 

Bhusal N, Mangal G, Bhattarai A, Hivale US.

Il problema

Pubblicato nel settembre 2017 da Journal of Ayurvedic and Herbal Medicine (ICV 72.65), l’articolo proposto, molto semplice ma in parte unico nel suo genere, riporta le conclusioni di un singolare studio pilota che ha indagato quale temperatura dell’olio medicato, potrebbe ritenersi indicata nella pratica di Kati Basti, per standardizzarne la procedura ed evitare il rischio di ustioni per il paziente ed il terapista. Lo studio è stato condotto presso il National Institute of Ayurveda (Jaipur- Rajasthan-India).

Kati Basti è la nota procedura Ayurvedica, attraverso la quale un olio medicato, opportunamente riscaldato, viene applicato e mantenuto in area lombosacrale, per un certo periodo di tempo, con l’ausilio di uno speciale anello (diga) appositamente preparato con polvere di “Black gram” (Vigna mungo – Sanskrit मुद्ग / mŪgd).

Finalità di Kati Basti è quella di alleviare il dolore, la rigidità e il gonfiore associati ad artrite ed altre condizioni dolorose; gli effetti di Kati Basti sono rivolti a pacificare Vata e Kapha nei soggetti con sintomatologie tipiche di articolazioni, muscoli e tessuti molli; come noto Kati Basti induce anche la sudorazione e contribuisce a facilitare la mobilità e la buona salute delle articolazioni, oltre ad agire su muscoli e tessuti molli colpiti.

Secondo le fonti ayurvediche e conferme secondo “evidence”, Kati Basti si rivela sicuramente efficace nella riduzione del dolore, ma se la difficoltà di posizionamento sulla parte interessata rappresenta un relativo inconveniente per la corretta esecuzione della procedura, una dovuta riflessione deve porsi sulla scelta della temperatura a cui applicare gli oli medicati al fine di ottenere riproducibilità degli effetti benefici del trattamento ed evitarne il rischio di ustioni.

Con il crescente interesse per la Medicina Ayurvedica nel mondo moderno le procedure dei vari Panchkarma possono variare notevolmente da un centro di trattamento ad un altro, con notevoli variabili di accuratezza e di sostanze impiegate; in molti centri, ad esempio, il tradizionale anello di polvere di “Black gram” viene sostituito con anelli di altri materiali acrilici o metallici; risulta pertanto difficile ritrovare uniformità nelle varie procedure.

In Kati Basti, l’aspetto della scelta della temperatura dell’olio medicato da applicare, risulta fondamentale, rispondendo al principio che il riscaldamento indiretto dell’olio dovrebbe raggiungere la temperatura fisicamente tollerabile dal paziente ed essere rispondente al concetto di Sukhoshna (cioè “comoda” per il paziente); la temperatura, inoltre, dovrebbe mantenersi uniforme durante e fino al termine della procedura, evitando il rischio di ustione al paziente e al terapista.

Come noto, per evitare il generale rischio di ustione, viene tradizionalmente indicato di rimuovere dal ring, ad intervalli regolari, una certa quantità di olio lasciandone comunque una minor parte, sostituendola con olio contemporaneamente riscaldato indirettamente.

Secondo tradizione, in Kati Basti, la scelta della temperatura ideale dell’olio medicato viene fatta dal terapista sulla base della sua esperienza professionale e sulla base del concetto di Sukhoshna, cioè di temperatura “comoda” per il paziente, in relazione alla sua soggettiva percezione del calore; attualmente risultano ancora limitati i dati per poter stabilire un parametro oggettivo per la scelta di una temperatura ideale.

Su base osservazionale la determinazione della temperatura dell’olio medicato, secondo percezione soggettiva del calore (del paziente e del terapista), ha validamente rappresentato il criterio principale di scelta, tuttavia risulta evidente che la percezione del calore varia da individuo ad individuo (anche da terapista a paziente) e che, ad esempio, la consuetudine all’esposizione all’olio riscaldato possa determinare una maggiore capacità di tolleranza al calore; influiscono poi sulla sfera soggettiva altri fattori come la stagione, la posizione geografica e Prakriti del paziente.

La standardizzazione di una temperatura ottimale dell’olio medicato potrebbe essere utile ai fini della riproducibilità degli effetti benefici di Kati Basti e per prevenire il rischio di ustione per il paziente ed il terapista.

Scopo dello studio proposto è stato quello di individuare una possibile temperatura ideale dell’olio medicato in Kati Basti, per poterne standardizzare la procedura.

Lo studio in breve

Lo studio è stato condotto nel dipartimento di Panchkarma dell’Istituto Nazionale di Ayurveda di Jaipur (Rajasthan) dove ogni giorno vengono mediamente eseguite più di 30 procedure di Kati Basti. Kati Basti è la procedura più comune tra quelle di Bahya Sthanik Basti eseguite nel reparto.

Per lo studio sono stati selezionati casualmente 50 pazienti tra quelli che si sono rivolti all’unità di Panchkarma per trattamenti Kati Basti. I pazienti inclusi nella valutazione avevano età compresa tri i 20 e i 75 anni e sono stati arruolati indipendentemente da altri criteri (es. sesso, patologie, etc.); sono stati analizzati soltanto i dati dei pazienti che hanno completato un percorso di minimo 7 giorni di trattamento Kati Basti; nello studio sono stati inclusi solo nuovi pazienti (non già noti al centro) suddividendoli secondo Prakriti.

I diversi terapisti, hanno come al solito proceduto a Kati Basti, decidendo secondo i loro criteri di esperienza e secondo Sukhoshna, la temperatura dell’olio medicato, tuttavia misurandola fisicamente in due momenti distinti.

Sui pazienti, in posizione prona, si è proceduto con Kati Basti, effettuato con anello di polvere di “Black gram” e Dashmoola Taila riscaldato ad una temperatura che i pazienti dovevano indicare come Sukhoshna (tollerabile e confortevole); inizialmente l’olio veniva versato sul bordo interno dell’anello per evitare disagi imprevisti e dispersioni.

Secondo procedura standard del centro, l’olio riscaldato è stato mantenuto “in situ” per 30-40 minuti e la misurazione della temperatura dell’olio, con il termometro, eseguita dal terapista, non ha disturbato o modificato la routine del trattamento Kati Basti infatti nello studio è stata rilevata soltanto la temperatura dell’olio, immergendo in esso la punta del termometro, senza ulteriori interventi specifici e senza darne informazione ai pazienti.

Per ogni singolo paziente, con un termometro digitale, è stata rilevata e registrata la temperatura dell’olio medicato in momenti distinti del trattamento e cioè quando l’olio, appena riscaldato, veniva versato nell’anello e nel momento in cui questo veniva sostituito per mantenere uniforme la temperatura.

Le temperature rilevate nei due momenti distinti sono state poi registrate ed analizzate per calcolarne la variazione media e tutti i pazienti sono stati osservati per tutti i 7 giorni di trattamento per eventuali problematiche ed ustioni.

Lo studio riporta in più tabelle analitiche i dati analizzati in modo statistico anche per tipologia di pazienti secondo Prakriti.

Le conclusioni

Lo studio ha coinvolto 19 pazienti di sesso femminile e 31 pazienti di sesso maschile, con età media di 51,2 anni.

Nello studio si è osservata una tolleranza alla temperatura leggermente maggiore nel maschio rispetto alla femmina; alcune diversità di tolleranza al calore sono state osservate anche in diverse tipologie di Prakriti; solo in 8 pazienti si è riscontrata qualche difficoltà di posizionamento ma non tale da interrompere il trattamento e solo in 4 casi si è riscontrata una più veloce risposta di assorbimento dell’olio riscaldato ma senza nessun fenomeno di ustione.

Le misurazioni delle temperature dell’olio medicato, decise secondo esperienza pratica del terapista e criteri Sukhoshna, indicano che alla prima rilevazione (momento iniziale di applicazione dell’olio appena riscaldato) la temperatura variava tra un massimo di 46, 30 °C e un minimo di 39,80 °C, mentre al secondo momento di rilevazione (sostituzione dell’olio) la temperatura variava da un massimo di 43,0 °C ad un minimo di 37,80°C, con una variazione media di 3°C ed una media di temperatura di 42,99 °C.

Lo studio indica che una temperatura media dell’olio medicato di 43 °C può essere favorevole in Kati Basti per la standardizzazione della procedura ed per evitare il rischio di ustioni per il paziente ed il terapista.

A cura della direzione scientifica di Benefica

JOURNAL OF AYURVEDIC AND HERBAL MEDICINE 2017; 3(3): 139-141

APPROACH TO STANDARDIZATION OF OIL TEMPERATURE IN KATI BASTI – A PILOT STUDY.

Nirmal Bhusal(1), Gopesh Mangal(2), Amrita Bhattarai(3), Ujjwala S Hivale(1)

Author information:

1 Ph.D. Scholar, Department of Panchakarma, National Institute of Ayurveda, Jaipur, Rajasthan-302002, India. 2 Assistant Professor and Head(I/C), Department of Panchakarma, National Institute of Ayurveda, Jaipur, Rajasthan-302002,India. 3 M.D. Scholar, Department of Panchakarma, National Institute of Ayurveda, Jaipur, Rajasthan-302002, India.

ABSTRACT

Kati Basti is a procedure done in Panchkarma Ayurveda Clinics, hospitals in which comfortably warm medicated oil is kept over the lumbosacral area for a certain period of time with the help of a specially formed frame ring prepared from black gram dough.

Kati Basti is highly effective in the management of pain but difficulty in positioning and chances of burn due to warm oil used is a big drawback in performing the procedure.

The temperature in Kati Basti pool is tried to be kept uniform throughout the procedure by replacing the oil by warm oil. In case of Kati Basti the temperature of oil used should be Sukhoshna (comfortable to the patient) which a subjective perception of heat. There is a need to standardize the optimum temperature of the oil pooled in Kati Basti so that it would be very easy for the therapist to avoid the burn to himself and to the patient.

This study was performed with the aim to standardize the comfortable tolerable temperature of Kati Basti. Data of 50 patients undergoing minimum of 7 days of Kati Basti between the ages 20 to 75 years were selected irrespective of sex, disease, duration and referring consultants.

Average maximum variation during the procedure was found to be of 3 degree Celsius.

The study found the average temperature of 43 degree may be favorable for Kati Basti and gives valuable information about possible temperature variations.

ISSN Print: 2394-7500

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Newsletter Fitoterapia nr. 33 – Aprile 2018

Newsletter n° «33»

Aprile 2018

Withania somnifera Dunal (Ashwagandha)

Ruolo adattogeno nell’attività sportiva

Ayu. 2015 Jan-Mar;36(1):63-8. doi: 10.4103/0974-8520.169002.

Efficacy of Ashwagandha (Withania somnifera [L.] Dunal) in improving cardiorespiratory endurance in healthy athletic adults.

Choudhary B, Shetty A, Langade DG

Gli adattogeni nello sport
Le piante medicinali impiegate nel mondo moderno come adattogeni sono innumerevoli; il loro effetto è quello di contribuire ad aumentare in “modo aspecifico” la resistenza dell’organismo a fattori stressanti di varia natura, sia fisica che psichica. In termini generali si può affermare che l‘effetto “adattogeno” sia riferibile a tutti i nutrienti (botanicals e non), che coinvolgendo globalmente il metabolismo, supportano l’organismo, in presenza di stress fisico e/o mentale, aiutando il corpo ad aumentare la propria capacità media di adattamento e sostenendo lo sviluppo di capacità di resistenza ad ulteriore stress, aiutando l’organismo ad un maggior livello di prestazioni.
L’azione generale degli “adattogeni” non è mirata ad un singolo organo o sistema, ma corrobora l’attività e l’efficienza dell’intero organismo.
Per questi motivi gli “officinali adattogeni” vengono tradizionalmente consigliati per affrontare e superare al meglio periodi di intenso stress psico-fisico, come ad esempio la preparazione ad un esame, periodi di super lavoro, disturbi collegati alla senescenza ed ai cambi di stagione, o semplicemente per risollevare il fisico dalla cronicità di gravosi impegni quotidiani.
La tradizione ci tramanda un ampio elenco di “botanicals” adattogeni, così definiti anche dalle attuali linee guida del Ministero della Salute, tuttavia, caso per caso, il livello di “evidence”, per reali effetti a favore della salute, è diverso e disomogeneo; tra gli adattogeni attualmente più raccomandati si possono citare appunto Ashwagandha, Rodiola, Ginseng, Schisandra e Maca.
Abbiamo quindi detto che gli adattogeni sono tradizionalmente impiegati per dare sollievo alle tipiche sintomatologie da stress, per sostenere le perfomances mentali (cerebrali), coinvolgendo anche le vie surrenali e migliorando, in generale, l’attività dell’asse HPA.
Solo più recentemente gli adattogeni hanno iniziato ad essere considerati anche come “integratori sportivi” per migliorare la forma fisica; studi recenti indicano che gli adattogeni possano essere effettivamente molto utili a supporto dell’attività sportiva (Bagchi D et al. 2013 ; Panossian A et al. 2008) in termini di effetto ergogenico (Molinos D et al. 2013).
Il razionale di utilità degli adattogeni a favore dell’attività sportiva fonda, oltre che sulla ovvia necessità di un aiuto alle generali prestazioni fisiche, sulla considerazione che un programma di allenamento di resistenza consiste nella ripetizione di esercizi con continuità della contrazione dei muscoli scheletrici che si oppongono alla resistenza di forze esterne; nei confronti della ripetitività di questi esercizi l’organismo deve reagire, con meccanismi di compensazione, resistenza ed adattamento continuativi e maggiori rispetto a condizioni standard; la “tensione” derivante da questa tipologia di esercizio fisico può essere quindi vista come una forma di “stress” (Kraemer WJ et al. 2004).

Ashwagandha come adattogeno nello sport
Ashwagandha (Withania somnifera Dunal) è una delle piante ad attività adattogena più conosciuta ed attualmente più studiata; questa bella pianta caratterizzata da bacche rosse, è particolarmente diffusa e coltivata in India e Pakistan oltre che nell’Europa meridionale.
Prevalentemente dalle sue radici ma anche dalle foglie, per usi diversi, si ricava un fitocomplesso molto articolato i cui componenti di maggior interesse sono chiamati “Witanolidi” (i witanolidi sono rappresentati da diverse famiglie di chemiotipi specifici) e che vengono ritenuti i responsabili delle diverse attività farmacologiche di Withania somnifera.
La moderna letteratura scientifica ed i testi tradizionali ayurvedici indicano Ashwagandha (Withania somnifera, anche noto come Ginseng indiano o Winter cherry) come una preziosa fonte di benefici per la salute per effetti anti-stress, neuro protettivi, immunomodulatori ed effetti “anti-aging”, interagendo con i sistemi: nervoso, endocrino, polmonare e cardio vascolare; ad Ashwagandha si attribuiscono generali capacità di sostegno al sistema di produzione di energia ed a quello immunitario; al fitocomplesso vengono inoltre riconosciute capacità analgesiche, antimicrobiche, antinfiammatorie, antitumorali, antidiabetiche, neuro protettive e immunoprotettive (immunomodulatorie).
Più recentemente le generali capacità adattogene di Ashwagandha hanno sollevato interesse per il potenziale aiuto ergogenico nei confronti dell’esercizio fisico a sostegno dei fisiologici meccanismi di adattamento e recupero soprattutto in programmi di allenamento di resistenza nell’attività sportiva.
Alla base di queste affermazioni si pongono diversi approfondimenti scientifici che, ad esempio, hanno dimostrato la capacità di Ashwagandha di migliorare, in adulti normali sani, la forza e la coordinazione muscolare oltre che la resistenza cardio respiratoria; nella medicina ayurvedica Ashwagandha è classificata come “rasayana” (ringiovanente), ed è stata tradizionalmente impiegata per la promozione della salute e della longevità, per rallentare il processo di invecchiamento, rivitalizzare il corpo e in generale per creare senso di benessere.
In particolare al fitocomplesso di Withania somnifera Dunal viene riconosciuta la capacità di stimolare la funzione respiratoria con rilassamento della muscolatura liscia e stimolazione dell’attività tiroidea, inoltre sull’uomo l’assunzione di Ashwagandha è associabile a riduzione di cortisolo, incremento di testosterone ed è ben tollerata. In generale Ashwagandha contribuisce a ripristinare la fisiologica capacità dell’organismo nel ridurre i valori ematici di azoto ureico e di acido lattico coinvolgendo anche i meccanismi dopaminergici che rispondono alle situazioni di stress.
Diverse caratteristiche farmacologiche del fitocomplesso di Ashwagandha ne indicano il positivo ruolo ergogenico, come coadiuvante nei programmi di allenamento alla resistenza, agendo su più fattori come la forza muscolare, l’incremento della massa muscolare, il recupero muscolare; secondo razionali scientifici Ashwagandha contribuirebbe a incrementare la capacità dell’organismo di generare meccanismi di “resistenza” alla fatica o allo sforzo fisico.
Le fonti tradizionali Ayurvediche fanno esplicito riferimento all’impiego di Ashwagandha a favore di “Bala” che in sanscrito, in una sua accezione, significa anche “forza”. [link monograph]

L’articolo
La recente letteratura indica che l’uso tradizionale di Ashwagandha fonda su una base logica e scientifica. Lo studio proposto nella newsletter, disponibile in Pub Med dal 2016, ha valutato l’efficacia di un estratto di radice ad alta concentrazione di Ashwagandha nel potenziamento della resistenza cardiorespiratoria e nel miglioramento della qualità della vita (QOL) in atleti adulti sani.
E’ noto infatti che l’esercizio isometrico, tipico dell’allenamento quotidiano di un atleta, aumenta significativamente la pressione sanguigna, la frequenza cardiaca, la contrattilità miocardica e la gittata cardiaca; questa maggior richiesta di attività fisiologica di compensazione richiede un sistema cardiorespiratorio idoneo.
Nei bambini e negli adolescenti è stato dimostrato che la scarsa forma cardiorespiratoria è fortemente associata a fattori di rischio di malattie cardiovascolari; attualmente si ritiene che la resistenza cardiorespiratoria sia una componente fondamentale ed un indicatore della buona forma fisica. Il consumo massimo di ossigeno (VO-max) viene generalmente considerato come un parametro molto affidabile di una buona idoneità cardiorespiratoria. Il test di VO-max è tra le procedure più utilizzate per studiare la fisiologia dell’esercizio fisico e, nell’atleta, indica la capacità di assorbire, trasportare e utilizzare l’ossigeno rappresentando una delle valutazioni più affidabili per la misurazione della resistenza. Questo test consente di studiare a lungo termine i parametri di resistenza aerobica e cardiovascolare ed è ritenuto uno dei parametri di valutazione principali nel fitness cardiorespiratorio.
Come noto gli allenamenti di resistenza richiedono tipicamente un numero elevato di ripetizioni a basso carico; tra questi uno degli esercizi fisici ritenuto valido ed affidabile per valutare il VO-max, sia nei maschi che nelle femmine adulti, è lo “shuttle run test su 20 metri”, già impiegato in altro studio, nella corsa, su un gruppo di studenti americani tra i 12 e i 15 anni di età, per valutare la resistenza cardiorespiratoria.
Lo studio che segnaliamo è randomizzato, in doppio cieco, controllato verso placebo, ed ha valutato gli effetti della supplementazione di un estratto ad alta concentrazione di Ashwagandha su VO-max e la resistenza cardiorespiratoria, oltre che su altri parametri, in 50 atleti adulti sani. Gli atleti sono stati sottoposti ad un allenamento intensivo di “shuttle run test su 20 metri”.
Al termine dello studio, rispettivamente a 8 e 12 settimane, nel gruppo “verum” si è osservato un aumento significativo di VO-max, rispetto al gruppo placebo, con un eccellente intervallo nei valori di VO-max prima e dopo la somministrazione.
Partendo dal presupposto dell’utilizzo tradizionale di Ashwagandha come “adattogeno”, (in quanto aumenta la resistenza a fattori fisici, chimici e biologici, supportando energia e generale vitalità), diversi altri studi recenti hanno confermato la capacità di Withania somnifera Dunal di incrementare significativamente il VO-max e di sostenere anche il rafforzamento muscolare.
Anche nelle conclusioni dello studio che presentiamo (reperibile in PubMed) Ashwagandha ha dimostrato una marcata capacità di rafforzamento muscolare e di resistenza all’esercizio inoltre ha dimostrato una reale capacità ipolipemizzante; tutti i partecipanti del gruppo trattato hanno inoltre riferito di una migliore qualità del sonno e di vita generale.
Secondo recente letteratura scientifica Ashwagandha dimostra inoltre di esercitare effetti significativi sui livelli di energia e sulla salute mitocondriale coinvolgendo l’adenosina trifosfato che è responsabile del mantenimento dei processi energetici a livello cellulare; questi effetti dipenderebbero dalla capacità del fitocomplesso di modulare i processi enzimatici ATP dipendenti dal Magnesio, e di ridurre l’attività dell’enzima succinato deidrogenasi nei mitocondri nel tessuto di granulazione, come dimostrato in un modello di granuloma indotto da carragenina.
Questi meccanismi spiegherebbero in parte gli effetti energizzanti di Ashwagandha, che migliorerebbe nei muscoli la funzionalità dei mitocondri che, come noto, è coinvolta nella capacità di resistenza all’esercizio fisico.
Ashwagandha dimostra anche la capacità di aumentare la quantità di globuli rossi e la quantità di emoglobina, traducendosi nella maggior capacità del sangue di trasportare ossigeno ai muscoli durante l’allenamento e, in concreto, migliorando le capacità aerobiche degli atleti; questi meccanismi suggeriscono una possibile spiegazione degli effetti ergogenici di Ashwagandha.
In precedenti studi su animali, sottoposti a esercizio fisico intensivo, era stato osservato un sensibile aumento (2-3 volte maggiore rispetto alla normalità) delle concentrazioni di radicali liberi nel muscolo e nel fegato, con drastica riduzione del controllo respiratorio mitocondriale, ed un sensibile aumento dello stress ossidativo.
In più di uno studio si è osservato che la somministrazione di estratti di Ashwagandha, per lunghi periodi, determina un significativo aumento di sostanze antiossidanti ed anche una riduzione significativa della lesione miocardica indotta da riperfusione da ischemia, suggerendo il potenziale cardio protettivo dell’officinale.
Per la valutazione del generale senso di benessere e di qualità di vita di un soggetto (QOL quality of life) viene ritenuto utile e affidabile il questionario WHO-QOL (WHO-QOL-BREF-World Health Organization-Last version 2013); il questionario misura i domini: “salute fisica”, “salute psicologica”, “relazioni sociali” e “reazioni all’ambiente”.
Nello studio proposto la QOL degli atleti è stata valutata con WHO-QOL e, nel gruppo trattato con Ashwagandha rispetto al placebo, si sono osservati miglioramenti di tutti i sottodomini della QOL (salute fisica, salute psicologica, relazioni sociali e fattori ambientali).
Le conclusioni dello studio indicano, nel gruppo verum, un significativo miglioramento (P <0,05) della salute fisica e psicologica, con superiorità di questi domini rispetto a quelli di “relazioni sociali” e “fattori ambientali”.
Nello studio la tollerabilità di Ashwagandha è risultata ottima ed il suo ampio uso tradizionale non ne richiederebbe ulteriori studi di Fase I e di Fase II.


 
Ayu. 2015 Jan-Mar;36(1):63-8. doi: 10.4103/0974-8520.169002.

Efficacy of Ashwagandha (Withania somnifera [L.] Dunal) in improving cardiorespiratory endurance in healthy athletic adults.

Choudhary B(1), Shetty A(2), Langade DG(3)

Author information:
(1)Hyderabad Spine Clinic, Hyderabad, Andhra Pradesh, India.
(2)Zela Life Health Center, Bengaluru, Karnataka, India.
(3)Department of Pharmacology, BVDU Dental College and Hospital, Navi Mumbai, Maharashtra, India.

Abstract   

INTRODUCTION: Ashwagandha (Withania somnifera [L.] Dunal) has been traditionally used for various actions ranging from vitalizer, improve endurance and stamina, promote longevity, improve immunity, and male and female fertility. However, clinical studies are needed to prove the clinical efficacy of this herb, especially in cardiovascular endurance and physical performance.

AIMS: This prospective, double-blind, randomized, and placebo-controlled study evaluated the efficacy of Ashwagandha roots extract in enhancing cardiorespiratory endurance and improving the quality of life (QOL) in 50 healthy male/female athletic adults.

MATERIALS AND METHODS: Cardiorespiratory endurance was assessed by measuring the oxygen consumption at peak physical exertion (VO2 max) levels during a 20 m shuttle run test. The World Health Organization self-reported QOL questionnaire (physical health, psychological health, social relationships, and environmental factors) was used to assess the QOL. Student’s t-test was used to compare the differences in a mean and change from baseline VO2 max levels, whereas Wilcoxon signed-rank test was used to assess changes in QOL scores from baseline in the two groups.

RESULTS: There was a greater increase from baseline (P < 0.0001) in the mean VO2 max with KSM-66 Ashwagandha (n = 24) compared to placebo (n = 25) at 8 weeks (4.91 and 1.42, respectively) and at 12 weeks (5.67 and 1.86 respectively). The QOL scores for all subdomains significantly improved to a greater extent in the Ashwagandha group at 12 weeks compared to placebo (P < 0.05).

CONCLUSION: The findings suggest that Ashwagandha root extract enhances the cardiorespiratory endurance and improves QOL in healthy athletic adults.

DOI: 10.4103/0974-8520.169002
PMCID: PMC4687242
PMID: 26730141

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Media News Marzo 2018

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Newsletter Ayurveda nr. 41 – Marzo 2018

Newsletter n° «41»

Marzo 2018

AYURVEDA E “COMPUTER VISION SYNDROME”

 

INTERNATIONAL JOURNAL OF APPLIED RESEARCH 2018; 4 (1): 297-300

AN AYURVEDIC MANAGEMENT OF COMPUTER VISION SYNDROME. 

Dr. Manish Walia, Avadhesh Bhatt, and Dr. Ajay Sharma

 

Un problema emergente

Le abitudini e lo stile di vita del mondo moderno determinano progressivamente nuove problematiche che coinvolgono sia la sfera psico-emotiva sia la sfera fisica dell’individuo; tra i disturbi fisici si sta rivelando emergente la “Computer vision syndrome”, cioè la sindrome da visione al computer. Secondo un recente studio, ne soffrirebbero nel mondo circa 60 milioni di persone con un milione di nuovi casi ogni anno (Ranasinghe P. et al. 2016.PMID:26956624). L’American Optometric Association definisce la “Computer vision syndrome” (CVS) come una sindrome correlata ad uno stato di generale affaticamento, non solo degli occhi, causata dall’uso prolungato di schermi elettronici; questa problematica insorge in coloro che, per vari motivi, trascorrono più di 7-8 ore al giorno davanti ad uno schermo e mediamente i primi sintomi si manifestano dopo 1/3 anni dall’esposizione. I sintomi della sindrome sono prevalentemente visivi come irritazione e secchezza degli occhi; affaticamento degli occhi e difficoltà di visione; bruciore; lacrimazione eccessiva; visione doppia; mal di testa; sensibilità alla luce; lentezza nei cambiamenti della messa a fuoco; cambiamenti nella percezione dei colori.

I soggetti che ne soffrono più frequentemente sono gli adulti, in relazione alla loro attività lavorativa, ma anche i bambini, che sempre più spesso utilizzano tablet e computer a scuola o per gioco; queste problematiche possono diventare più evidenti se, durante la visione dello schermo, l’illuminazione e la postura non sono corrette. Le recenti ricerche scientifiche hanno evidenziato che delle persone che utilizzano il computer continuativamente manifestano qualche sintomo della sindrome in una percentuale tra il 50% e il 90%.

La sindrome da visione del computer (CVS) dipende da uno stato di affaticamento degli occhi; il sintomo principale è la secchezza oculare che di per sé non é pericolosa, se episodica, ma che se non trattata, può avere conseguenze anche serie (cheratite, decentramento ottico negli occhiali, disallineamento bifocale progressivo). La CVS peggiora con il prolungarsi dell’attività e i primi sintomi possono comparire dopo diverse ore di attività e non essere immediati; in alcuni casi possono subentrare sensazioni di dolore.

La CVS dipende da diversi fattori tra i quali, il primo, è la necessità di dover mettere a fuoco testi ed immagini visualizzati sul pc o su altri dispositivi, per periodi di tempo prolungati ed ininterrotti; questo sforzo continuativo degli occhi determina un arrossamento della sclera dipendente dall’eccessivo flusso di sangue verso gli occhi ed il processo infiammatorio dovuto alla continuità del lavoro. A questo primo fattore si associa poi, nel lavoro al computer, la necessità di dovere spostare frequentemente gli occhi dallo schermo verso documenti ad esso vicini, dai quali ad esempio si estrapolano dati da inserire: questa continua attività muscolare di spostamento degli occhi determina uno stato di affaticamento con manifestazioni anche dolorose; questo sovraccarico di attività degli occhi porta come conseguenza comune la precoce evaporazione del film lacrimale infatti, a causa della visione ininterrotta e della ridotta velocità di battito degli occhi, la secrezione lacrimale delle ghiandole lacrimali diminuisce o le lacrime evaporano rapidamente e l’occhio non viene adeguatamente inumidito. Questo provoca la sensazione di occhio secco e di bruciore. Dobbiamo tenere in considerazione che lo strato acquoso (lacrimale) svolge un ruolo fondamentale nel fornire ossigeno all’epitelio corneale anche con funzione di “lavaggio” di detriti e di sostanze irritanti nocive mentre lo strato lipidico ha, tra le sue funzioni, quella di prevenire l’evaporazione dello strato acquoso. Lo strato mucoso possiede funzioni lubrificanti. La compromissione, per qualsiasi motivo, dell’efficienza di uno di questi strati porta a seccare gli occhi causando potenzialmente ulteriori sintomi di CVS.

Concorrono poi ulteriori fattori che si associano frequentemente alla CVS come ad esempio il piegare la testa con angolazioni strane a causa dell’utilizzo di occhiali da vista non adatti e non progettati per la visione al PC, oppure il piegarsi verso lo schermo per vederlo chiaramente. Deve poi essere tenuta in primaria considerazione anche la generale postura assunta per molte ore davanti al pc: se non corretta può provocare spasmi muscolari o dolore al collo, alla spalla o alla schiena. La CVS può essere anche aggravata da altri problemi di salute (difficoltà digestive, presenza di gas intestinali, stitichezza e stress ecc.); quindi anche il trattamento sistemico degli altri fattori associati è da ritenersi importante.

La natura del problema si pone come continuativa e non facilmente evitabile, spesso per motivi professionali; generalmente i consigli terapeutici mirano a contrastare la secchezza oculare con interventi specifici (idratanti-lubrificanti-colliri) e si affiancano al consiglio di occhiali specifici per computer e di un uso giudizioso del pc. La soluzione del problema tuttavia può prevedere un approccio più ampio sfruttando anche le potenzialità della Medicina Ayurvedica (Nasya – Dinacharya – Shirodhara) e, ad esempio, di esercizi yoga per gli occhi, utili a rilassarne i muscoli, per ridurre l’affaticamento e aumentarne la resistenza.

 

La visione Ayurvedica

La “Computer vision syndrome” chiaramente non è menzionata nei testi classici ayurvedici, tuttavia questo quadro sintomatologico è inquadrabile in Ayurveda come Netrarogas ed il trattamento più adatto della sindrome (Chikitsa) è individuale in chiave di lettura di Hetu, Samprapti, Purvaroopa, Roopa di Netraroga. Secondo letteratura infatti i sintomi della CVS sono simili e paragonabili a quelli di Netra roga il cui trattamento (Chikitsa) dovrebbe essere: Aschotana, Seka, Sneha parishek, Prakshalana e Shirovasti, seguiti da Nasya, Tarpana e Putpaka; possono inoltre essere consigliati Vatapittahara Dravyas e Shirodhara.

Gli obiettivi del trattamento ayurvedico per la secchezza degli occhi mirerebbero alla correzione della vitalità di Vata (in probabile predominanza Vata-Pitta), in generale nel corpo e specificatamente negli occhi, e la correzione del “fuoco digestivo” sostenendo la lubrificazione nel corpo; questo approccio può essere utile anche per alleviare i sintomi del CVS.

Nell’articolo proposto vengono esaminati in modo sintetico ma completo tutti questi aspetti con particolare attenzione al ruolo di Nasya panchkarma che risulta molto attivo su urdhwajatrugata roga (regione sopra-clavicolare) pulendo tutti gli Srota dall’accumulo di Dosha viziato.

Nasya è una delle 5 tecniche di panchkarma (trattamenti disintossicanti); essa prevede che i farmaci vengano somministrati, attraverso le narici, nelle cavità nasali. Il primo effetto di nasya è quello di contrastare lo stato di “secchezza” riscontrato all’origine di molte sintomatologie respiratorie e allergiche ed analogamente nasya fornisce nutrimento e la lubrificazione agli occhi.

Vagbhatta acharya, sulla base dell’inquadramento dei dosha coinvolti, offre una spiegazione di vari tipi di nasya: Pratimarsha Nasya specifico per la riduzione dell’affaticamento degli occhi: migliora la visione e quindi può essere utile per alleviare i sintomi come visione offuscata, difficoltà di messa a fuoco, visione doppia; Shaman Nasya per contrastare l’arrossamento degli occhi e la congestione ( S. Su.20 / 29, As. Hri. Su. 20/6); Sneha Nasya specifico come rigenerante e rafforzatore delle funzioni degli organi di senso e migliora della capacità visiva. (Hri. Su. 20/23).

In modo di dire ayurvedico “Nasa hi Shirasodwaram” spiega in modo sintetico il fondamento del meccanismo d’azione di Nasya; infatti per contiguità anatomica, nervosa e vascolare, la cavità nasale è in stretto rapporto con la “testa” e le sostanze somministrate attraverso le narici possono diffondere attraverso il condotto nasolacrimale, l’orecchio medio, attraverso la tuba d’Eustachio, gli spazi intra cranici, fino all’orecchio medio.

La sostanza (dravya) somministrata attraverso nasya, può raggiungere facilmente “Sringataka marma” che rappresenta un punto vitale situato nel cervello e corrispondente ai centri nervosi; da esso quattro arterie (Shiras) entrano in connessione con quattro organi di senso e cioè: naso, occhio, orecchio e lingua.

Alla base della spiegazione del meccanismo di attività di nasya si pone l’evidenza scientifica che una qualsiasi irritazione in qualsiasi parte del corpo provochi un aumento della circolazione del sangue in loco; analogamente avviene, attraverso nasya, in Shiras dove gli effetti irritanti del farmaco somministrato incrementano la circolazione del flusso sanguigno del cervello; da qui i Dosha viziati vengono condotti e sversati, attraverso piccoli vasi sanguigni, nella secrezione nasale, nelle lacrime e nella salivazione.

Attraverso nasya i farmaci prescritti nella terapia entrano direttamente in contatto con la mucosa nasale che è caratterizzata dalla presenza di  molte terminazioni nervose in particolar modo del nervo trigemino. Il fenomeno irritativo diretto con conseguente stimolazione delle terminazioni nervose potrebbe determinare variazioni distali nel ganglio del Trigemino e questi impulsi trasmessi al Sistema Nervoso Centrale; questi eventi si tradurrebbero in miglioramento della circolazione e del nutrimento degli organi aiutando la remissione della malattia. Probabilmente karma Nasya stimola i neuroni del trigemino con effetti sfruttabili anche per alleviare il mal di testa ed altre sintomatologie.

Secondo i testi classici la maggior parte delle sostanze (dravya) somministrate con nasya posseggono proprietà di Katu (amaro), Ushna (Caldo) e Teekshna (penetrante, acuto); questi farmaci producono dravekaranam (liquefazione/fluidificazione) e chedanam (espulsione) di dosha viziati. Le sostanze Kashaya rasa (astringenti) producono effetti astringenti mentre mentre quelle Madhura rasa (dolci) producono un effetto rinfrescante e nutriente.

Nasya, secondo la visione Ayuvedica, se eseguito regolarmente (importanza di Dinacharya) , risulta utile nel trattare e prevenire varie patologie che interessano la testa (Urdhawanga). Nasya purifica la funzione sensoriale degli occhi, del naso. Attraverso questa procedura le sostanze (medicinali) non subiscono processo di digestione ed evitano alterazioni dirette della struttura mucosale gastrica. Il procedimento pulisce e apre i “canali” della testa, migliorando così il processo di ossigenazione con un’influenza diretta sul funzionamento del cervello.

Anu -Taila è l’olio ayurvedico raccomandato dagli specialisti per la pratica di Nasya. Tradizionalmente l’Ayurveda prescrive Anu – Taila anche per il regolare impiego nella domestica e quotidiana pratica di Dinacharya per la “purificazione” del corpo e dei sensi. Anu – Taila ha la caratteristica di essere equilibrato e Tridoshico e può essere utilizzato (secondo la dose) in ambiti differenti e con scopi peculiari. Tradizionalmente si consiglia di applicare Anu -Taila con un leggero massaggio anche sulla radice del naso e sulla fronte. Questa semplice pratica , predispone quotidianamente ad un miglior assorbimento di Prana attraverso la respirazione.

 

L’articolo

L’articolo, pubblicato da International Journal of Applied Research nel 2018; (SJIF Impact Factor 5,2), propone la possibile soluzione Ayurvedica per il contemporaneo ed emergente problema della “computer vision syndrome”.

Le conclusioni dello studio riconducono al pensiero che nella lettura ayurvedica la soluzione del problema sia da affrontare in modo multidisciplinare con particolare riferimento all’efficacia di Nasya panchkarma affiancato anche ad altri interventi, ben spiegati nell’articolo, come Prakshalan (lavaggio oculare), Netra Tarpana, Shirodhara, Snehapana (Gritapana) e Virechana.

Nella proposta della soluzione Ayurvedica per la “computer vision syndrome” devono essere compresi come necessari alcuni cambiamenti dello stile di vita a partire dall’adagio “early to bed, early to rise” per arrivare ad un sano stile di vita (privo di dipendenze come alcool o fumo) ed alimentare. L’articolo fa anche espresso riferimento all’utilità di specifici esercizi yoga per rilassare i muscoli degli occhi per ridurne l’affaticamento aumentarne la resistenza.

A cura della direzione scientifica di Benefica

INTERNATIONAL JOURNAL OF APPLIED RESEARCH 2018; 4 (1): 297-300

AN AYURVEDIC MANAGEMENT OF COMPUTER VISION SYNDROME.

Dr. Manish Walia 1, Avadhesh Bhatt 2, and Dr. Ajay Sharma 3

 

Author information:

PG Department of Rasa Shastra & Bhaishajya Kalpana Vigyana, M.M.M. Govt. Ayu. Colg. Udaipur, Rajasthan, India.

Prof., PG Department of Rasa Shastra & Bhaishajya Kalpana Vigyana, M.M.M. Govt. Ayu. Colg. Udaipur, Rajasthan, India.

PG Department of Rasa Shastra & Bhaishajya Kalpana Vigyana, M.M.M. Govt. Ayu. Colg. Udaipur, Rajasthan, India.

 

ABSTRACT

Background: Computer vision syndrome (CVS) is a condition resulting from focusing the eyes on a computer or other display device for protracted, uninterrupted periods of time. It isn’t one specific problem. Instead, it includes a whole range of eye strain and pain & other symptoms are headaches, blurred vision, neck pain, fatigue, dry eyes, irritated eyes, double vision, vertigo/dizziness, polyopia and difficulty refocusing the eyes. These symptoms can be further aggravated by improper lighting conditions or air moving past the eyes. Research shows that between 50% and 90% of people who work at a computer screen have at least some symptoms. Dry eye is a major symptom that is targeted in the therapy of CVS. It is not a very dangerous issue but can cause serious problems if not get the attention at the time. The goals of Ayurveda treatment for CVS include correcting the vitiation of Vata dosha in body and in the eyes also, relieving the symptoms of dry eyes and correcting the digestive fire and encourage lubrication in the body.

Aim: To explores the role of panchkarma in computer vision syndrome. Panchakarma provide an effective solution for CVS. There are various relaxing methods that help in restoring the moisture in your eyes and calm your mind and body and give you serene feelings. These methods can be very effective and have variety depend on your requirements as Nasya, Shirodhara, Netradhara, Tarpana, Snehapan & Virechana also.

Material & method: In the present study, we collected and compiled references regarding classical Ayurvedic texts, research papers in peer reviewed journals & related data of different websites have critically reviewed.

Discussion & conclusion: We often choose allopathic solutions for most of our problems, but in Ayurveda, Panchakarma can be the better and effective solution as it ends the problem with the help of natural products and has no side effect. Ayurveda is one of the effective medical systems which are beneficial to keep your eyes healthy.

 

ISSN Print: 2394-7500

 

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